domenica 15 novembre 2015

il manifesto 15.11.15
L’antropologia romana ha bisogno del filologo
Maurizio Bettini, «Dèi e uomini nella città», Carocci. Roma e gli dèi altrui, l’«autobiografia» bilingue di Augusto, il funerale aristocratico, il parto cesareo... Una raccolta di saggi chiari e pacati
di Carlo Franco


L’antichità greca e romana occupa da lungo tempo uno spazio nell’identità dell’occidente. Se lo avrà ancora in futuro, è difficile dire: probabilmente sarà sempre più marginale. Ma intanto gli antichi continuano a sollecitare la nostra riflessione: certo, non più in termini di esemplarità o di valore assoluto, e sempre più raramente anche in termini di «attualità». Produttivo resta però il loro ruolo di paradigma culturale sul quale esercitare il nostro sguardo. Le ricerche che Maurizio Bettini conduce almeno a partire dall’ormai classico Antropologia e cultura romana (1986, trad. ingl. 1991) vanno precisamente in questa direzione: oggetto di analisi sono mentalità, credenze, identità della Roma antica, studiate non con la superiorità del moderno che a proposito degli antichi «la sa più lunga» di loro (il Besserwissen, così caratteristico degli antichisti, un tempo), ma con l’intento di comprendere la cultura romana secondo le categorie che le furono proprie. Giacché gli antichi, sebbene per alcuni aspetti siano vicini a noi, ci sono lontani per altri, e misconoscere questa «alterità» conduce a equivoci culturali e storici. Il percorso di Bettini prosegue ora con una nuova raccolta di saggi, che rielabora contributi precedenti apparsi anche in sedi estere (Dèi e uomini nella Città Antropologia, religione e cultura nella Roma antica (Carocci «Frecce», pp. 213, euro 19,00). E il primo aspetto da notare, proprio perché il libro lo sottintende, è che la cultura romana, pur se largamente influenzata da quella greca, ebbe caratteri suoi specifici: sicché chi studia le mentalità, i riti, i valori simbolici, le strutture profonde, è libero dal problema della «originalità» dei romani. Annosa questione, che ha condizionato (non sempre bene) l’approccio alla letteratura e delle espressioni artistiche in latino, e che ha avuto l’effetto di far trascurare quanto pur c’era di specificamente romano. Eppure, Plutarco doveva spiegare ai suoi lettori le «cause» di tante usanze che a un greco risultavano strane o incomprensibili (Questioni romane): segno che ancora nella civiltà bilingue dell’impero si percepivano differenze marcate tra le due culture. Oggi la ricerca incontra problemi differenti: ci si confronta con una cultura che non è vivente, ma solo con le sue testimonianze per lo più scritte, e questo richiede un’attenzione forte al metodo: «si può fare antropologia “etnica” romana solo a patto di fare contemporaneamente ermeneutica e filologia dei testi che possediamo» (p. 70). A differenza dalla via seguita da altri approcci al mondo antico, la lingua continua qui ad avere un ruolo importante: essa è uno degli strumenti principali utili a comprendere «i Romani secondo i Romani». Gli argomenti dei saggi, sviluppati con la chiarezza pacata che è caratteristica di Bettini, conducono il lettore in direzioni differenti, tra religiosità e pratiche culturali, unificate dal ricorso a strumenti antropologici e anche filologici. L’attenzione al latino non è concessione professorale, né compiacimento elitario, né feticismo per l’espressione originale: Bettini, che alla «antropologia della traduzione» ha dedicato un libro importante (Vertere, Einaudi 2012), è guida sicura all’operazione, rischiosa ma ineludibile, di interpretare gli antichi a partire dalle loro parole. Lo mostrano saggi come quello sulla interpretatio Romana, che dissipa un equivoco assai comune sul modo in cui a Roma si approcciavano gli dèi «degli altri», o quello sul concetto di auctoritas, così rilevante anche sul piano politico. Nel primo caso si dimostra come l’incontro con le divinità delle altre culture procedesse secondo i caratteri «indiziari» dell’analogia e della congettura; nel secondo si chiarisce che la auctoritas implica una «forza» che emana dall’interno del soggetto, e non deriva dall’esterno. La portata politica di questa lettura appare quando la si applica a un testo «politico» se mai altri ve ne sono, come le Res gestae di Augusto, la grande «autobiografia» destinata a perpetuare l’immagine trionfale del triumviro fattosi padre della patria. Del testo si conserva, nella monumentale iscrizione di Ankara, la versione latina e quella greca, e da tempo gli storici hanno rilevato, fin dalle prime righe, le sottili differenze tra i due testi, che parlano a pubblici differenti dicendo cose differenti. Ebbene, nel passo in cui Augusto chiarisce di essere stato pari in potestas, ma superiore in auctoritas a tutti coloro che ebbe colleghi nelle varie magistrature, auctoritas è reso in greco con exousía, che rinvia invece a un fondamento esterno della «autorevolezza», ben lontano dal concetto latino. Questo esempio mostra chiaramente che non ha spazio qui l’antistoricità, l’amore per schemi astratti dalle contingenze sociali e politiche, spesso rinfacciata agli studi antropologici del mondo antico: anche gli appassionati della politica troveranno in questo libro ampio materiale di riflessione circa episodi famosi e significativi. I funerali importanti, ad esempio. Quello di Giunia, moglie di Cassio e sorellastra di Bruto, morta nel 22 AD, è rimasto celebre perché Tacito ricorda (Annali, 3.76.2) che nell’occasione le imagines dei due cesaricidi non poterono sfilare nel corteo, ma che tutti ne notarono l’assenza: ebbene, accanto alla valenza politica, l’episodio riguarda il modo in cui la cultura romana strutturava i funerali aristocratici, secondo una griglia di valori complessa e unicamente romana. E lo stesso vale per il «mimo» che prese parte al funerale di Vespasiano (Svetonio, Vespasiano, 19), o per la caricatura scritta da Seneca alla morte del poco amato Claudio: entrambi i casi richiamano (anche) la compresenza di lutto e scherno che caratterizzava le cerimonie funebri romane. E Bettini fa notare che quando questi e altri testi sono usati come «documenti», senza valutare in essi l’incidenza dei modelli culturali, si è incorsi in gravi fraintendimenti. L’approccio antropologico chiama dunque in causa anche le grandi questioni: la riflessione sul modo in cui romani pensavano il proprio inizio come popolo, in assenza di una rappresentazione cosmogonica, conduce a ragionare sulla «ideologia» dell’inizio di Roma (e non sulla presunta storicità di Romolo e dei suoi muri…). E dal mito di fondazione esce un quadro di «apertura» e mescolamento (p. 23) che deve forse qualcosa a suggestioni contemporanee, ma che rinvia a una questione strutturale del massimo interesse (importante il saggio di Philippe Gauthier, “Générosité” romaine et “avarice” grecque: sur l’octroi du droit de cité, del 1974). Pure, fra problemi complessi e strumenti dotti, a questo libro di Bettini va ancora una volta riconosciuta la qualità della leggerezza, conseguita con un racconto disteso e con l’apertura a situazioni (fatti, aneddoti) «sorprendenti» ma capaci di suggestioni non superficiali. Avviene così nell’ultimo capitolo, dedicato al parto cesareo, ossia alla nascita non naturale, che parte della tradizione antica attribuì (erroneamente) a Cesare: un percorso che conduce attraverso nascite miracolose e ominose di uomini grandi, e che porta finalmente a capire perché Macduff sconfigge Macbeth, protetto dalla profezia delle streghe («te non ucciderà nato di donna»). Giacché, come lo stesso Macduff rivela allo sgomento re, «Nato non sono: strappato fui dal sen materno» (IV.9, nella versione di F.M. Piave per Verdi). Perché i modelli culturali romani hanno, appunto, una lunga storia.