domenica 29 novembre 2015

Corriere La Lettura 29.11.15
Interazione non è integrazione ma questa terra può accogliere
di Annachiara Sacchi


L’intreccio tra sospetto e bisogno dell’altro. Ecco cos’è Venezia, cos’è il Veneto, cinque secoli fa come oggi, ai tempi della fondazione del Ghetto ebraico e, negli ultimi vent’anni, durante le ondate di immigrazione degli albanesi, quindi dei cinesi, fino agli sbarchi dei profughi che dalla Siria arrivano in Italia, nelle province del Nordest. Uno scenario che non è cambiato, «anche se i professionisti della paura cercano ogni giorno di sconfiggere quel certo senso per l’accoglienza connaturato in noi veneti». Andrea Segre, regista, autore di film e documentari che dirigono l’obiettivo verso storie di migranti, di pregiudizi nei confronti del «diverso», di contatti e scontri tra uomini, parla di stranieri. «Segregati ma necessari, come nel Cinquecento».
Anche adesso?
«Negli anni Novanta del secolo scorso il Veneto ha perso l’occasione di essere un incredibile laboratorio di intercultura. Il 96% degli stranieri era integrato nel tessuto economico. Da quelle terre poteva nascere, ed essere esportato, un vero modello di integrazione».
Che cos’è successo?
«Ha prevalso la paura. Hanno vinto ragionamenti così: la mia vita sta cambiando, colpa dell’altro. Non so cosa sarà il futuro, le mie certezze si sbriciolano, dipende dai nuovi arrivati».
Come nel suo film «Io sono Li», ambientato a Chioggia?
«Esattamente. Il cliente chioggiotto che frequenta la stessa osteria da sempre, abituato a confidare i suoi guai, complice anche il vino, all’oste, trova Li, una cinese dietro il bancone. Non lo accetta. Sta male e si sfoga contro di lei. Sono reazioni spontanee, lo so benissimo. Ma quello che non accetto è l’atteggiamento di certa politica che, consapevolmente, alimenta dolori e ansie del “popolino”. Tra l’altro dobbiamo tutti abituarci a questi cambiamenti: in Veneto circa un bar su quattro è di proprietà cinese. E i titolari stanno iniziando ad assumere ragazzi italiani».
Tutto questo nella Laguna, madre e culla di identità.
«Appunto».
Lo dice con rammarico. Non crede nelle nuove generazioni?
«Qualche giorno fa abbiamo proiettato il mio film La prima neve in una scuola media di Treviso. Trecento, quattrocento studenti. Uno spettacolo bellissimo: avevo il mondo davanti. E pensavo: quando quei ragazzini nascevano, in Veneto c’erano sindaci sceriffi che facevano togliere le panchine per non far sdraiare gli stranieri».
Quindi l’integrazione ha vinto?
«Quelle classi credo rappresentino l’occasione per dire che siamo ancora in tempo per cambiare».
I veneti hanno una maggiore predisposizione a integrare gli altri?
«Come a Venezia con gli ebrei, esiste una strana forma di convivenza basata su due elementi: la tendenza a ghettizzare più che in altre realtà e la necessità di inserire gli stranieri nel tessuto economico. Queste due anime continuano a esistere. E anche se nell’immediato vince chi alimenta la paura, sono convinto che nel lungo periodo queste derive siano destinate al fallimento. Tra l’altro è già successo».
Quando?
«Vent’anni fa con gli albanesi. In Veneto si respirava un’aria di terrore. Ci ricordiamo la nave Vlora? Quando chiedo agli adolescenti come abbiamo risolto il problema degli albanesi, nessuno mi sa rispondere. Ma la questione è semplice. Dando loro il diritto di viaggiare liberamente. La paura è perdente. E in questo processo è fondamentale la società civile attiva, che permette alle comunità di dotarsi di anticorpi, evitando il pericolo della xenofobia. Consapevoli del fatto che non possiamo frenare i processi di immigrazione: il cinese nell’osteria di Chioggia è come il pastore macedone in Abruzzo, il mungitore sikh nella Bassa padana».
Come si producono gli anticorpi?
«Il Veneto lo fa in modo silenzioso e faticoso, ma lo fa. E anche Venezia lo ha fatto con gli ebrei. Trovando un alleato speciale. La cultura (con le stamperie, soprattutto), necessaria perché l’economia da sola non basta: l’economia è interazione, non integrazione».
Ma quando diceva che il Veneto è un laboratorio mancato, che cosa intendeva?
«Quando ghettizzi puoi sfruttare la segregazione economicamente, guadagnarci. Così hanno fatto i veneziani con gli ebrei. Così fanno certi privati oggi, ospitando i profughi nei loro immobili o terreni ricevendo sovvenzioni: è capitato. Nell’intreccio tra paura e accoglienza si verificano anche questi fenomeni ed è difficile contrastarli, perché opponendosi sembra di alimentare la diffidenza, il sospetto. Mentre la sfida dei prossimi anni sarà quella di ridefinire un welfare globale, nel nome di diritti globali, non negoziabili».
Crede che sia possibile vincere questa scommessa?
«Abbiamo in mano il futuro, possiamo sconfiggere la paura, fare dei nostri anticorpi un corpo civile. E per farlo abbiamo a disposizione uno strumento in più: la memoria. Che a Venezia si respira ovunque, inevita-bilmente. C’è qualcosa nella città che aiuta a fermare la fretta, l’ansia per il futuro. A riflettere. A concentrarci su ciò che è veramente importante».
Anche adesso?
«Certo. Soprattutto nella zona del ghetto, dove amo tornare».
Che cosa le piace di quel luogo?
«Il fascino estetico e l’atmosfera intrisa di storia. Cerco invece di evitare la parte più commerciale di Venezia: lo sfruttamento turistico è un altro aspetto rivelatore di un rapporto pericoloso, seppur diverso, tra città e stranieri. E sempre legato a interessi economici. Io per esempio, ero d’accordo con il sindaco Massimo Cacciari quando ipotizzò di introdurre il numero chiuso nella Laguna. Per non parlare delle grandi navi...».
Frequenta la comunità ebraica?
«Non ho nessun rapporto con la comunità, nonostante il mio cognome. Mio nonno paterno, milanese-torinese, poi trasferito a Venezia, era ebreo. Ma dopo aver vissuto gli anni della Shoah volle quasi rimuovere quegli orribili eventi. Parlava a fatica del passato. Quello che ho imparato dell’ebraismo mi è stato trasmesso da mia madre e da mia nonna paterna, entrambe cattoliche. Come spesso succede certe tradizioni, certi saperi, soprattutto nel mondo ebraico, si trasmettono per via materna».
Tornerà ancora a raccontare i temi dell’immigrazione?
«Certo, è il film a cui sto lavorando proprio ora».
Lei ha spesso parlato di paura. Crede che quella che si sta diffondendo in questi giorni, dopo gli attacchi di Parigi, abbia a che fare con la diffidenza nei confronti dello straniero?
«Anche se i due temi si intrecciano, si tratta di paure diverse. Quelli che abbiamo visto in azione a Parigi sono signori della guerra. Che hanno a che fare con poteri veri».