domenica 29 novembre 2015

Corriere La Lettura 29.11.15
La rinascita longobarda
I segreti del Tempietto di Cividale : arte e fede arrivano dal Medio Oriente
di Carlo Vulpio

Dall’esterno sembra soltanto l’umile cappella di un monastero, all’interno invece si rivela per ciò che davvero è, un capolavoro dell’arte mondiale che dentro di sé racchiude il genio artistico espresso dal sentimento religioso e dalla tradizione storica di popoli molto diversi tra loro. Romani, bizantini, longobardi. E artisti siriaco-palestinesi che a una decina di chilometri dall’attuale Slovenia crearono «un angolo di Medio Oriente in terra longobarda».
La cappella fa parte della gastaldaga longobarda, cioè il palazzo del gastaldo, il diretto rappresentante del re, e nasce quindi come cappella di palazzo. È nota come Tempietto longobardo e nel 2011, insieme con il monastero di Santa Maria in Valle di cui fa parte, è stata inserita dall’Unesco nel Patrimonio mondiale dell’umanità. Il Tempietto è chiamato così anche per le sue dimensioni, appena cento metri quadrati di superficie, e forse anche per la sua posizione, sullo strapiombo del fiume Natisone, che fa apparire quel piccolo edificio del tutto indifeso e sempre in bilico, quando invece l’unico vero scossone gliel’ha dato il terremoto del 1976, il più forte di tutto il XX secolo nell’Italia settentrionale, che fece quasi mille morti e obbligò a restaurare centinaia di monumenti, tra i quali il Tempietto.
Questa piccola chiesa, che è una costruzione semplice, dall’architettura cristiano-orientale, con l’aula quadrata, la volta a crociera e il presbiterio coperto da tre navatelle con volte a botte, è una grande sorpresa, quasi una matrioska di stili e di storie, densa di stimoli per gli occhi e la mente, e tuttavia mai sovraccarica, nonostante lo spazio limitato. Il suo fascino ha contato molto nel giudizio che Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia , dà di Cividale, da lui considerata «la più bella città del Friuli» e quella che «conserva l’impronta longobarda più di Pavia». Eppure Pavia era la capitale del regno longobardo. Da dove viene allora questa «impronta» così forte da far prevalere Cividale su Pavia?
Una risposta la troviamo in Storia del Friuli (Società Filologica Friulana) di Giancarlo Menis e Pier Carlo Begotti. «Storia del Friuli e storia del ducato longobardo — scrivono i due autori — sono la stessa cosa per 208 anni». I due secoli, cioè, che vanno dall’invasione del 568 di Alboino — che non trova ostacoli alla sua avanzata e si impadronisce della Venezia e della stessa Forum Iulii (l’attuale Cividale, fondata da Giulio Cesare) — fino al 776, quando Carlo Magno conquista il regno longobardo e conserva per sé il titolo di rex Langobardorum .
Il nome Forum Iulii passò a indicare l’attuale regione solo quando il regno longobardo si spense. Fino ad allora Forum Iulii era stato il primo ducato longobardo a essere costituito e l’ultimo a morire, dopo essersi opposto con tutte le forze a Carlo Magno. E questo perché Forum Iulii fu, sostengono Menis e Begotti, «il centro del partito nazionalistico longobardo». Accentramento, autonomismo, politica nazionalistica, sono questi i caratteri distintivi che permettono al ducato friulano di esercitare un innegabile predominio sugli altri ducati longobardi in Italia, diventando per essi un modello, e di superare nel campo dell’arte tutti gli altri Stati barbarici. Siamo alla metà dell’VIII secolo, negli anni in cui regna prima Ratchis — duca del Friuli, diventato re — e dopo di lui suo fratello Astolfo. Ma soprattutto siamo negli anni di massima espansione del potere longobardo in Italia. Langobardia maior al Nord e Langobardia minor nel Centro-sud sono ormai una cosa sola, l’Italia bizantina è allo sbando e quasi tutta la penisola è in mano longobarda. È il momento migliore per i longobardi, e proprio il Tempietto — con i suoi stucchi meravigliosi, l’altare di Ratchis, il battistero di Callisto, i tesori dell’oreficeria — ne è la testimonianza più efficace e più completa. È vero che probabilmente esso risale agli anni Settanta-Ottanta dell’VIII secolo, e cioè all’epoca di re Desiderio, l’ultimo sovrano longobardo, ma è negli anni e con i re precedenti che germoglia e cresce ciò che Desiderio raccoglierà.
Il Friuli era stato da sempre un punto di contatto e di contrasto tra popoli diversi. Era stato invaso dai Celti quattro secoli prima di Cristo. Aveva subìto Goti, Unni e un’ondata migratoria di Ostrogoti nel V secolo dopo Cristo. Poi era stato invaso dagli Avari, che nel 610 avevano saccheggiato e distrutto Cividale, e poi ancora da altre popolazioni slave. Adesso, finalmente, con Ratchis e Astolfo — ma anche prima, nell’ultimo decennio di Liutprando, che muore nel 744 — poteva vivere un periodo felice, che si manifesta attraverso l’arte e la cultura e anticipa la rinascita carolingia. Un periodo che può essere definito senza forzature «rinascenza longobarda». Nel Tempietto, si comprende quanto ampia fosse l’apertura mentale dei longobardi e soprattutto quanta voglia avessero di non «rimanere indietro», sia stringendo legami con il papato e mantenendo con esso stretti rapporti anche quando i papi li additavano come il nemico pubblico numero uno, sia mutuando i simboli del potere dalla nemica corte di Bisanzio e imitandone lo sfarzo.
«I rapporti tra papa Gregorio Magno e la corte longobarda — scrive Stefano Gasparri in Italia longobarda (Laterza) — furono decisivi per la cristianizzazione dei longobardi». E il Tempietto ne è una dimostrazione, perché è concepito come un’affermazione dell’ortodossia cattolica contro l’arianesimo (che ammetteva la Trinità ma considerava la natura del Figlio inferiore a quella del Padre), dottrina molto diffusa tra i longobardi. I quali, d’altra parte, mentre infuriava la guerra iconoclasta, «difesero Papa Gregorio II, che resisteva alla proibizione imperiale del culto delle immagini, dall’esarca Paolo che voleva ucciderlo».
Quella iconoclasta fu una «guerra santa», passata alla storia come la «crisi iconoclasta» di Bisanzio e durò dal VI al X secolo. I decreti dell’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico contro il culto delle immagini sacre misero in fuga verso l’Occidente artisti e maestranze la cui «mano» ritroveremo in luoghi impensati. Nella chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio (Varese), per esempio, o a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, oppure a Santa Prassede, San Clemente e Santa Maria in Domnica a Roma. E, appunto, nel Tempietto, analizzato e ben illustrato ne Il Tempietto longobardo di Cividale del Friuli , di Piero e Ornella Rugo, Elio Ciol e Luciano Perissinotto (Savioprint).
Qui, gli stucchi, unici in Occidente — l’arco vitineo, le fasce decorate e le sei statue —, sono la prova visiva di quanto abbiamo cercato di dire finora. L’archivolto vitineo del Tempietto, un lavoro finissimo, 28 grappoli d’uva e 26 pampini, evidente riferimento cristologico al sangue e al vino (l’eucarestia), possiamo «rivederlo» nell’arcone in stucco di Khirbat al-Mafiar, vicino a Gerico, in Cisgiordania, e in quello di Qasr al-Hayr, in Siria, a un’ottantina di chilometri dalla sfortunata Palmira. Per Josef Strzygowski siamo di fronte a un chiaro esempio di arte di «origine orientale», mentre Decio Gioseffi parla di «cultura protoislamica». Entrambi gli storici dell’arte, una differenza di età di cinquant’anni, sostengono la stessa cosa: è alla Siria-Palestina che bisogna guardare per capire. Poi ci sono le sei splendide statue, alte un metro e 86 centimetri: quattro sante e, al centro, rivolte verso una finestra (la luce, altro simbolo divino), due donne in atteggiamento di preghiera. Le sante, non a caso, sono le tre sorelle orfane, nate ad Aquileia — Chione, Irene e Agape (i cui nomi in greco significano Neve, Pace e Amore) —, e Sofia (che significa Saggezza, ma che in questo caso non sta a indicare la Saggezza divina, perché è il nome proprio della santa, nata a Cagliari).
Le quattro donne furono tutte martirizzate a Tessalonica nel 304 dopo Cristo, sotto l’imperatore Diocleziano, e sono raffigurate secondo la stessa «teoria delle sante» che ritroviamo a Ravenna e a Roma. Ognuna di loro ha una corona del martirio nella mano destra e una croce, simbolo di salvezza, nella sinistra. Sono alte, più grandi del naturale, rigide nella postura, disegnate sul modello romano-bizantino di linee rette, che le fa svettare ancora più in alto, forse erano anche colorate, e hanno gli occhi enormi, la pupilla dilatata, lo sguardo fisso e fuori dal tempo. Esprimono tutto il trascendentismo proprio del cristianesimo dell’impero d’Oriente. Mentre la fascia superiore dell’archivolto vitineo è decorato con figure geometriche, secondo il gusto proprio dei longobardi e dei popoli nordici, che non avendo modelli classici a cui ispirarsi «riempivano gli spazi» come meglio potevano e sapevano.
Il Tempietto ha anche una iconostasi — la barriera dove si collocano le icone sacre e che separa l’area del celebrante da quella dei fedeli — ed era decorato da mosaici, che sono stati poi sostituiti da affreschi risalenti al XIII e XIV secolo. I dipinti del voltino — Cristo in gloria , San Giovanni Battista fra le sante e l’ Adorazione dei Magi — sono molto ben conservati, mentre quelli sotto l’archivolto vitineo che raffigurano Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele si intravedono appena. Sono tutti però di impronta bizantina. Come pure gli altri affreschi del Tempietto, quelli che celebrano martiri soldati e santi guerrieri, figure più vicine all’immaginario e alle tradizioni nordiche. Quando si lascia il Tempietto, per completare questo viaggio nell’arte e nella storia bisogna passare dal Museo cristiano, ammirare il Tesoro del Duomo, scendere nel suggestivo ipogeo celtico, una camera funeraria del IV secolo avanti Cristo, e infilarsi nei vicoli della città medioevale per apprezzarne l’armonia urbanistica e architettonica. Magari evitando di incrociare il gigantesco «scarafaggio spaziale» — l’orribile nuova sede della Banca popolare di Cividale celebrata come «opera di riqualificazione da mettere in relazione con la città», ma che con questi luoghi non c’entra nulla — per non rovinare tutto.