sabato 21 novembre 2015

Corriere 21.11.15
Il compito difficile di conciliare libertà e sicurezza
di Paolo Franchi


Paralleli
Islamisti e brigatisti, diversissimi, condividono la pulsione alla polarizzazione estrema dello scontro
Guerra
Gli attentatori di Parigi non sanno che farsene della speranza (insana) di ottenere qualche consenso tra una parte almeno della popolazione

Niente di più sbagliato che suggerire analogie tra il terrorismo politico europeo degli anni Settanta-Ottanta e quello islamista. Almeno una cosa in comune, però, questi terrorismi incommensurabilmente diversi la hanno. Ed è la pulsione irrefrenabile alla polarizzazione estrema dello scontro, alla desertificazione, cioè, dei mondi restii, adesso per cultura e modi di vita ben più che per motivazioni politiche, a fare propria la logica ferrea della contrapposizione brutale e feroce tra l’amico e il nemico su cui ogni terrorismo si fonda. Probabilmente i gruppi di fuoco che hanno scelto come bersagli, oltre allo stadio, l’undicesimo e il dodicesimo arrondissement di Parigi, e come occasione il venerdì sera, non ci hanno neanche pensato, volevano «solo» dimostrare con il sangue degli innocenti (e con il loro) che questa è una guerra in cui nessuno può illudersi di essere al sicuro. Ma con ogni probabilità anche il commando brigatista che il 24 gennaio 1979 assassinò l’operaio comunista Guido Rossa era convinto «semplicemente» di liquidare un «delatore»: di fatto stava lanciando, invece, un aut aut sciagurato (o con noi o contro di noi) alla classe operaia italiana, che fortunatamente, ma in primo luogo grazie all’opera dei suoi bistrattati partiti e dei suoi ancor più bistrattati sindacati, lo rinviò al mittente.
Stavolta non c’entrano né le Brigate rosse né le ideologie novecentesche, né i partiti né i sindacati. Qui si parla di quartieri un tempo popolari e rossi, affollati di lapidi in memoria di resistenti (spesso operai, spesso sindacalisti) ed ebrei, che molto spesso impietosamente ci ricordano il ruolo della polizia francese nel mandarli a morte; qui si parla di quartieri dove da un pezzo il bourgeois bohémien , sempre che esista ancora, e i suoi figli convivono pacificamente, e talvolta si mescolano (al mercato, al bistrot , a scuola) con il cinese, con il turco e naturalmente con il maghrebino; qui si parla di quartieri i cui locali e le cui strade, ogni venerdì e ogni sabato sera, si riempiono di una gioventù cosmopolita che non si fa problema, per stare insieme, del colore della pelle, della fede religiosa, della condizione sociale. Non è l’Eden, ci mancherebbe. È piuttosto une certaine idée de Paris , quella idea di cui ci ha dato testimonianza, dopo la strage, la vicina Place de la République più ancora che Notre-Dame. Di una Parigi lontana, lontanissima, certo, dai ghetti della banlieue , dove, tra tanto odio, matura anche quello delle giovani reclute dell’Isis; ma pure dalla Parigi della grande e media borghesia conservatrice e (vogliamo dirlo?) spesso apertamente reazionaria. Da queste parti i voti per madame Le Pen, almeno sin qui, si sono contati sulle punte delle dita; e neanche Sarkozy, che nell’altra Parigi stravince, è mai andato per la maggiore. Da queste parti l’idea che sia in corso uno scontro di civiltà, una guerra di religione per vincere la quale bisogna prima di tutto arruolarsi, non ha mai fatto troppi proseliti.
A questa Parigi i seminatori di morte hanno fatto sapere, con il sangue, che così non può andare avanti. Che c’è la guerra, la più totale delle guerre, e in una guerra simile non c’è posto per chi vuole vivere in pace come più gli aggrada, accettando il rispetto della libertà altrui come unico limite alla sua. A differenza dei brigatisti della colonna genovese che uccisero Guido Rossa, questo terrorismo non nutre nemmeno, anzi, non sa che farsene, della speranza (insana) di ottenere qualche consenso tra una parte almeno della gente. Al contrario, se anche quelli dell’undicesimo e del dodicesimo si ritrovassero, per paura, per disperazione, per non sentirsi soli, a reclamare occhio per occhio, sangue per sangue, se le ragazze e i ragazzi del venerdì e del sabato sera smettessero di mescolarsi allegramente e se ne restassero a casa, o frequentassero luoghi ben più fortificati, gli strateghi del terrore, che cercano anche loro una specie di legittimazione (perché, altrimenti, autodefinirsi Stato?), sarebbero convinti, purtroppo a ragione, di aver raggiunto almeno uno, e non l’ultimo, dei loro obiettivi. Tra i quali, al di là dei proclami, sanno benissimo che non rientra, perché non può materialmente rientrarci, la conquista della Francia, o dell’Italia, o della Gran Bretagna. Ma il nostro suicidio (perché questo sarebbe la rinuncia alle nostre libertà e al pluralismo dei nostri modi di vita) sicuramente sì. Conciliare libertà e sicurezza, quando si è sotto attacco, è impresa difficilissima, e forse, Dio non voglia, addirittura impossibile. Non porsi nemmeno la questione, o nasconderla sotto una spessa coltre di retorica, è follia.