Corriere 17.11.15
Chi sono gli attentatori
Bilal, Sami e gli altri reduci convertiti in Europa alla Jihad
di Marco Imarisio
PARIGI «Sei il padre di un assassino». La scritta in arabo è appesa sull’ingresso sbarrato con assi di legno di un negozio senza insegne. Come un cartello segnaletico. Il posto deve essere questo, in fondo a un vicolo nella parte vecchia e fatiscente di Drancy, l’ultimo avamposto delle sterminata banlieue della Capitale, in quel 93 che è il numero del Dipartimento di Seine-Saint Denis, ma è diventato un marchio, un modo di dire che ormai significa «racaille», spazzatura, polveriera sociale.
Mohamed Amimour è il padre di un assassino che ha fatto di tutto perché suo figlio non diventasse tale. Non voleva che uccidesse e fosse ucciso. Quando Sami partì per la Siria fece un appello pubblico ai giornali, cercava soldi per andare e riportarlo indietro. Li trovò. A 67 anni viaggiò fino al confine con la Turchia, affidandosi alla rete della persona che glielo aveva portato via, un predicatore itinerante belga che sta diventando il filo più stretto che tiene insieme il commando della strage di Parigi. Raggiunse Minbej, vicino Aleppo, dove vide il drappo nero dell’Isis. E infine trovò Sami, per scoprire che non era più suo figlio. Aveva cambiato nome. Ora si chiamava Abu Hajia, la guerra. Gli chiese di tornare indietro con lui, gli diede una busta con mille euro per pagarsi la fuga. Sami la prese e gli restituì una sola banconota. Buon viaggio, gli disse suo figlio. Non lo rivide mai più.
Ci vogliono ore di trattativa con la piccola folla davanti al negozio per ottenere un numero di telefono al quale risponde Mustafa, che dice di essere il fratello di Mohamed e lo zio di Sami. In sottofondo si sente un coro di pianti femminili. «Tutto il mondo lo odierà, noi possiamo solo rispettare la sua scelta». Intorno a noi alcuni ragazzi insultano quell’uomo anziano, e si capisce che la scritta sul negozio non è marchio di infamia, ma di derisione. Lo accusano di aver raccontato ai giornali quel che accadeva nella sua famiglia, in una banlieue dove oggi non sembra esserci pietà per un padre sconfitto, che pure nella sua storia di venditore di vestiti usati ha un altro denominatore comune della strage di venerdì, la spola continua della sua famiglia tra Parigi e il Belgio.
L’arresto di ieri
È lo stesso destino di Mohamed Amri, 27 anni, doppio passaporto francese e belga, fermato ieri a Moleenbek con l’accusa di essere l’artificiere che ha preparato i giubbotti esplosivi per il commando suicida. Anche lui ben conosciuto dai servizi segreti dei due Paesi, anche lui reduce dalla Siria. L’ultimo domicilio conosciuto è Bruxelles, dove ieri nel suo appartamento sarebbero state trovate alcune bottiglie della miscela chimica usata per far saltare in aria i suoi compagni di strage. Dal 2010 al 2013, anno della sua partenza, aveva vissuto a La Corneuve, la banlieue accanto a quella del figlio di Mohammed, la stessa dove è cresciuto Ahmedi Koulibaly, l’uomo del massacro di gennaio all’Hypercacher. La notte del massacro è stato chiamato più volte da Salah Abdeslam, l’uomo più ricercato d’Europa. La Golf 3 che lo ha riportato da Parigi a Molenbeek è sua.
Il commando del Bataclan
Sami Amimour è un altro nome della casella dei kamikaze. Anche lui era stato etichettato con la S dai servizi segreti, che significa potenziale estremista islamico. Nel 2012 il suo nome era spuntato nell’inchiesta sul fallito tentativo di partenza per lo Yemen, accanto a quello divenuto ormai famoso di Cherìf Kouachi, uno dei fratelli della strage a Charlie Hebdo. Sami era partito per Siria nel 2013. Nel dicembre 2014 aveva raccontato di avere ricevuto un addestramento militare a Racca e di aver combattuto al fronte. Da allora aveva interrotto ogni comunicazione. È riapparso al Bataclan. Al suo fianco c’era Omar Ismail Mostefai, l’unico ad aver sempre vissuto in Francia, prima di convertirsi alla Jihad dopo l’incontro con un predicatore belga. La Turchia aveva più volte segnalato alla Francia la sua presenza in zona di guerra, l’ultima nel giugno 2015. Senza mai ot tenere manifestazioni di interesse.
Allo Stade de France
Bilal Hadfi, 20 anni, francese ma residente in Belgio è l’autore dell’ultima esplosione, quella delle 21.53 con la quale si è fatto saltare in aria. Anche lui aveva viaggiato in Siria, nel 2013 e nel 2014. All’altro nome non corrisponde una identità. Ahamad al Mohammad, c’è scritto su un passaporto accanto a uno dei tre corpi ritrovati sulla spianata che collega la stazione del metrò allo Stade de France. Uno sconosciuto. Un uomo con quel documento è sbarcato il 3 ottobre sull’isola di Leros, in Grecia. Quattro giorni dopo ha chiesto asilo al posto di blocco di Presevo, in Serbia, e fin qui si tratta della stessa persona, che potrebbe essersi registrata il 9 ottobre al centro d’accoglienza di Opatovac, in Croazia. Sullo strano comportamento del commando, che non ha mai raggiunto lo stadio, forse la spiegazione è davvero la più semplice. Almeno così la pensa un inquirente all’uscita da un Quai des Orfevres blindato. «Come per Charlie Hebdo sembrano operazioni ben pianificate. Ma poi rivelano la loro rozzezza. È mancata la logistica, sono arrivati in un luogo che non conoscevano».
Nelle strade
Ibrahim Abdeslam si è fatto esplodere in un bar di boulevard Voltaire, dopo aver sparato ai clienti dei ristoranti della zona. Era tornato dalla Siria due mesi fa. È lui ad aver affittato la Seat nera sulla quale viaggiavano gli autori dei tre agguati di quella sera. Aveva 31 anni, era il fratello maggiore di Salah, l’unico sopravvissuto, adesso in fuga, che invece ha noleggiato l’auto usata dal commando del Bataclan. Anche lui classificato con la S, anche lui reduce di guerra, come gli altri, come forse lo saranno anche i due corpi ancora non identificati, uno al Bataclan e l’altro allo Stade de France. Un massacro ideato nelle terre dell’Isis, pianificato in Belgio, eseguito in Francia da jihadisti che hanno compiuto più volte il viaggio in Siria. «Il nostro problema non è la partenza, quel che non riusciamo a impedire è il loro ritorno» ha detto nei giorni scorsi un prefetto. È di questo che si parlerà, quando il lutto e il dolore si saranno depositati.