sabato 14 novembre 2015

Corriere 14.11.15
Novant’anni fa
Le sfide che minacciano il sogno liberale di Gobetti
La rivista fondata dal giornalista-politico antifascista venne chiusa per ordine del duce
Vale la pena ricordare questa storia perché corrisponde a un tema attuale: il rischio che l’Europa, dopo un percorso democratico, si affidi al pessimo rimedio del populismo e alle sirene xenofobe
di Francesco Rutelli


Obiettivo
Lo scopo della sua vita si è realizzato nel Dopoguerra e nella nascita dell’Unione
Fragilità
Se tornasse oggi, si preoccuperebbe della sfiducia verso i nostri sistemi democratici

Caro direttore, Piero Gobetti ricevette in queste ore, 90 anni fa, il decreto definitivo di chiusura de La Rivoluzione Liberale da parte del regime fascista. L’8 novembre 1925 era uscito l’ultimo numero, sotto la diffida del Prefetto di Torino, D’Adamo. L’ordine di chiusura, «in considerazione dell’azione nettamente antinazionale esplicata», viene disposto ed eseguito negli otto giorni successivi. Comporterà la chiusura della casa editrice; «Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (…). Penso un editore come un creatore» aveva scritto Gobetti. E, alcune settimane dopo l’esecuzione dell’ordine di Mussolini: «In realtà, se qualcuno rimane oggi in faccia al fascismo non vinto, almeno sul terreno ideale, è il nostro gruppo. Non dico neppure che sia una consolazione: tuttavia l’onore è salvo». L’onore, e non la vita: come conseguenza delle percosse subìte, un Gobetti fiaccato da problemi cardiaci e dalla bronchite morirà a Parigi il 15 febbraio 1926.
Penso che rendere onore a questo eccezionale uomo di libertà ed intransigenza democratica, nel dolente anniversario della liquidazione delle sue attività creatrici, risponda a un tema attuale: il rischio che la nostra Europa — con prospettive depresse, e in condizioni economiche difficili — perda la fiducia nella politica democratico-liberale e si affidi al perfido rimedio del populismo. La lucidità e l’ardimento di un uomo di minoranza come Gobetti di fronte all’ascesa della dittatura sono impareggiabili: «Io sto qui, e non posso altrimenti», secondo il riassunto di Norberto Bobbio. Sopra a tutto vale il suo motto (lo porto sempre con me, nel suo Ex Libris) «Ti moi sun douloisin»; «Che ho a che fare, io, con gli schiavi?».
Certo: la capacità di formare e informare nuove generazioni e leve di intellettuali, oggi, non potrebbe essere arrestata da un ordine prefettizio. Le libertà di opinione ed espressione sono tanto vaste da rendere vertiginoso — se lo confrontiamo con le realtà di molti Paesi del mondo, e con le nostre stesse, sino a pochi decenni fa — l’accesso diretto al sapere e alle possibilità di divulgazione. Ma è vero che la testimonianza gobettiana fa riflettere su un aspetto cruciale del nostro tempo: la crescita esponenziale delle libertà individuali si associa a una perdita verticale della partecipazione democratica reale. Lo scopo della vita di Gobetti, spezzata a 25 anni, si è realizzato nel Dopoguerra e nella nascita dell’Unione Europea. Ma il suo sogno di una democrazia liberale, ovvero vigile, critica, sempre in grado di produrre anticorpi contro «il potere che corrompe» (per usare le parole di un altro grande liberale, John Acton) oggi è particolarmente minacciato. Un Piero Gobetti che tornasse tra noi, dopo aver espresso gioia per la fine della censura e della violenza della dittatura, si preoccuperebbe delle fragilità e sfiducie diffuse nei nostri sistemi democratici; dell’eccessiva personalizzazione politica; dell’ansia di semplificare — e falsificare — i temi complessi, favorendo il ritorno di sirene populiste e xenofobe. Penso che su queste sfide aprirebbe, come fece quasi cent’anni fa, «la più grande battaglia ideale del secolo».
co-Presidente del Partito Democratico Europeo
nel Gruppo liberaldemocratico in Europa