giovedì 12 novembre 2015

Corriere 12.11.15
Intrecci
Tolomeo, le mappe e la prospettiva L’arte è una questione geografica
di Franco Farinelli


Per Mark Rothko, alla metà del secolo scorso, il problema era «ricondurre lo spettatore dentro l’immagine» dipinta, il diavolo nella bottiglia. Ma quando ne era uscito?
La questione riguarda la storia dell’arte, certo, ma la risposta è letteralmente geografica. Senza la riscoperta della Geografia di Tolomeo, avvenuta a Firenze nei primissimi anni del Quattrocento, non vi sarebbe stata l’invenzione della prospettiva lineare moderna, che Erwin Panofsky chiamava «artificiale» per distinguerla da quella naturale degli antichi. E senza la prospettiva fiorentina non vi sarebbe stata l’intera modernità.
Non vi sarebbe stato lo spazio inteso come riduzione della faccia della Terra a complesso di parti l’un l’altra interscambiabili, primo «regno dell’equivalenza generale», come più tardi Marx dirà del mercato. Non vi sarebbe stato lo Stato, macchina spaziale che oggi mostra la sua ruggine.
Prima ancora, non vi sarebbe stata appunto la distanza tra spettatore e immagine da cui lo spazio trae origine, quel divario tra i terminali del processo cognitivo cui a metà del Seicento Cartesio darà veste canonica ma che nasce in forma esemplare e allo stesso tempo concretissima sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito da Brunelleschi qualche mese dopo la traduzione latina del testo tolemaico: il testo che, anche se finora quasi nessuno se ne è accorto, è proprio il libro che «facea tutta la guerra», il volume che nell’Orlando Furioso il mago Atlante tiene in mano per incantare il reale, sicché quest’ultimo «al falso più che al ver si rassomiglia».
La prospettiva moderna, la tecnica di ricondurre a misura l’intervallo spalancato tra il soggetto e l’oggetto, è insomma nient’altro che la traduzione orizzontale del verticale dispositivo geometrico che nell’opera di Tolomeo serve a trasformare la sfera terrestre in una mappa, dunque a sottrarre una dimensione al mondo: marchingegno che i traduttori moderni chiameranno proiezione, termine che deriva dall’alchimia e che segnala la precisa consapevolezza di avere a che fare con la più grande metamorfosi che si possa immaginare.
Nasceva in tal modo lo spazio della modernità, un ordine visivo generale in grado di informare nel corso del tempo non soltanto il pensiero plastico di tutto il pianeta ma, come codice dell’organizzazione territoriale, di soppiantare ovunque la vecchia logica dei luoghi. E in funzione di tale ricostituita genealogia, per cui il discorso artistico diventa un’estensione ed un’articolazione di quello geografico, molti problemi acquistano una veste inedita, e una nuova formulazione.
Un solo esempio: il celebre dibattito sul primato delle arti, la disputa se la suprema forma d’espressione fosse la pittura o la scultura, che tra Cinque e Seicento coinvolse in Italia i massimi artisti e fior di teorici. A rileggere oggi i loro scritti appare evidente come i partigiani della pittura fossero tolemaici fino in fondo, perché difensori dell’unicità del punto di vista e di conseguenza dell’immobilità del soggetto: condizione essenziale per la riuscita del trucco prospettico come faceva notare Pavel Florenskij, stupito di come lo spettatore sembrasse paralizzato, quasi fosse stato avvelenato col curaro.
Rivendicando al contrario la pluralità dei punti di vista, Benvenuto Cellini e i pochissimi altri sostenitori del primato della scultura sulla pittura implicavano un registro della figurazione assolutamente opposto, non soltanto perché fondato sulla mobilità del soggetto, ma anche per una ragione inscritta ancor più nel profondo della cultura occidentale.
Nella geometria classica noi chiamiamo definizioni ciò che per Euclide sono veri e propri limiti, qualcosa cioè che il ragionamento non può oltrepassare, e cui egli dà letteralmente il nome di «montagne». Come dire che sotto tal profilo Cellini e compagni risultano non soltanto anti-tolemaici ma prima ancora anti-euclidei, sostenendo non soltanto la molteplicità delle visuali ma anche la necessità del loro raccordo: dunque un «sistema figurativo» (avrebbe detto Pierre Francastel) assolutamente anti-spaziale, riflesso non della pianura (di cui la superficie sulla quale si tracciano le linee è per Euclide e Tolomeo evidentemente la copia) ma della pratica dell’ambito montano, in cui a ogni passo la veduta può cambiare, e il soggetto deve continuamente connetterla alle precedenti. Nel segno dunque di un’altra possibile geografia, anch’essa sconfitta dalla storia.