Corriere 12.11.15
Case, amori e rimozioni emotive L’indagine magistrale di Yehoshua
Un’arpista torna a Gerusalemme: le tappe di una maturazione sulle note di Debussy
di Giorgio Montefoschi
Noga, la protagonista dell’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua intitolato La comparsa (Einaudi), ha poco più di quaranta anni. È una musicista. Suona l’arpa. L’arpa è uno strumento che spesso ha un ruolo limitato o addirittura non è presente nelle partiture. Talvolta, invece — come nel celebre poema sinfonico di Debussy, La mer , nel quale di arpe, a dialogare fra vento, onde, e misteri sonori del mare, ce ne sono addirittura due — ha una fondamentale importanza e produce miracoli. Suonare l’arpa nella Mer è meraviglioso. Ma ora, all’inizio del romanzo, Noga è lontana dall’Olanda — dove si è trasferita dopo essersi separata dal marito Uriah, al quale non voleva dare figli — e dall’orchestra nella quale ha trovato posto. Ora è a Gerusalemme, nella vecchia casa di famiglia in cui è cresciuta insieme a suo padre, sua madre e suo fratello Honi, perché il padre è morto (serenamente, senza neppure accorgersene, nel sonno: come vorremmo tutti) e il fratello, passati alcuni mesi, l’ha richiamata indietro per un aiuto.
Ci sono, infatti, da risolvere dei complicati problemi immobiliari. La casa, nella quale la famiglia di Noga è vissuta in affitto pagando un prezzo bassissimo, è situata in un quartiere ortodosso, il quartiere di Makor Baruch, e deve essere costantemente presidiata. Insomma: è un appartamento che fa gola a molti e, per le leggi vigenti, non può essere lasciato vuoto nemmeno un giorno in quella zona di Gerusalemme che si sta «tingendo sempre più di nero», con quegli ultraortodossi indemoniati che non fanno altro che pregare, presto governeranno Israele e non vedono l’ora di istallarsi nella comoda casa gerosolimitana. E siccome la madre di Noga e Honi, che non è vecchia, però ha settantacinque anni, forse da sola non può più stare, e Honi l’ha convinta a provare per tre mesi un bella casa di riposo per anziani, moderna, piena di ogni confort, a Tel Aviv, dove lui vive con la moglie e i figli, ecco la necessità che per soli tre mesi Noga abbandoni la sua orchestra e l’Olanda e venga a fare da sentinella nell’appartamento dal quale, comunque, hanno già tolto quasi tutto. Al suo mantenimento penserà il fratello. In più, se vorrà guadagnare qualcosa, e ingannare il tempo, potrà fare la comparsa. Che comparsa? Nel cinema, negli sceneggiati televisivi.
Yehoshua, da quel grande scrittore che è, può anche inventarsi spericolati e magnifici racconti che sprofondano in un passato remoto, come nel Signor Mani o in Viaggio alla fine del millennio , ma il suo epos vive nel presente. E neppure tanto nella tragedia del conflitto israelo-palestinese, che pure è sempre sullo sfondo, ancorché muto o invisibile; quanto nella dolorosa meccanica coniugale e in quella famigliare. E nei luoghi che la custodiscono: quegli appartamenti, moderni o antichi, di Haifa come di Gerusalemme come di Tel Aviv, nei quali sempre la semplicità degli arredi e la pulizia e il decoro sono l’elemento comune; quei salotti con i divani che hanno la base di legno e una tappezzeria qualunque; quelle cucine in cui c’è il necessario; quelle stanze da pranzo che su un mobile hanno le candele del sabato e la bottiglia del vino; quelle stanze da letto con quei letti nei quali non si finisce mai di abbracciarsi. E così è ne La comparsa : nella casa concupita e sorvegliata perché non diventi preda.
Perché Noga non ha voluto dare un figlio a Uriah, l’uomo che amava, che continua a amare e dal quale, nonostante sia adesso sposato con una donna grassottella che le assomiglia e di figli gliene ha regalati due, continua a essere amata? Alle persone che le pongono questa domanda, una domanda che lei non smette mai di sollecitare di proposito o inconsciamente, sia con la madre sia con il fratello, sia con degli sconosciuti visti per la prima volta, Noga non vuole e non sa rispondere. Intanto, riprende la vita di un tempo nel condominio in cui è stata bambina, è diventata grande, ha conosciuto Uriah e per la prima volta ha voluto fare l’amore con lui nel letto dei suoi genitori; si deve difendere dai due nipoti del vecchio e infinitamente saggio signor Pomeranz del piano di sopra: due piccoli ultraortodossi, con riccioli biondi e bruni e occhi meravigliosi, ai quali sua madre ha dato il permesso di vedere come e quando vogliono la televisione (proibita al piano di sopra), e adesso sgusciano in casa da ogni parte compresa la finestrella del bagno; si riabitua Gerusalemme; si accorge che gli uomini la guardano e la desiderano; va a Tel Aviv, mangia con la madre, sta sul prato della casa di riposo, dorme nel letto della madre. E fa la comparsa: in un finto ristorante, in un finto processo, in un finto ospedale.
Non c’è alcun bisogno di illustrare gli inevitabili momenti del contrasto e dell’identificazione con se stessa provocati dalle varie parti nelle quali Noga si cala — uscendone ogni volta senza aver sciolto il groviglio interiore che l’ha spinta a lasciare l’uomo che amava e a partire per l’Europa. Nel romanzo adesso, deve a ogni costo riapparire Uriah: il marito tradito nel suo desiderio di avere un figlio. E riappare Uriah: nello spettacolare palcoscenico della fortezza di Masada, sulle rive del Mar Morto. Lì, per tre recite, Noga fa la comparsa nella Carmen . Uriah incontra Honi e la madre di Noga che sono venuti a vederla. Vede Noga. E, possedendo la chiave, torna nel vecchio appartamento che conosce tanto bene. La lunga scena che si svolge fra i due è straziante. Lui le dice che il suo amore non è finito. Lei gli fa capire che non è finito neppure il suo. Lui le chiede perché non ha voluto essere la madre di un loro figlio. Lei si difende dicendo di aver avuto paura di essere risucchiata dal suo amore, di essere ricattata, se mai avesse voluto liberarsi da questo amore, dalla presenza di un figlio, più altre cose confuse. Lui non capisce e le chiede di farlo ora, subito, un figlio loro. Lei gli dice che non può perché orami si è isterilita, non ha più le mestruazioni e comunque non lo farebbe, perché non vuole dare un dolore a sua moglie. Poi lo congeda, chiude la casa, torna in Olanda e, con la sua orchestra, va in tournée in Giappone.
Il lettore, adesso, ha capito che tutto quella che Noga ha detto a Gerusalemme al suo ex marito è una finzione. Ha capito che la negazione di Noga non ha ragioni spendibili: non è nient’altro che la misteriosa negazione alla felicità nella quale ci precipita il nostro incancellabile senso della colpa. Ma non può prevedere quello che capiterà, quando, a Kyoto, Noga metterà le dita sull’arpa e inizierà La mer (vuol dire anche madre, oltre che mare) di Debussy. Che strepitoso romanzo ci ha regalato, alla vigilia dei suoi ottanta anni, Abraham B. Yehoshua.