martedì 6 ottobre 2015

Repubblica 6.10.15
Betlemme.
Lanci di sassi contro i soldati israeliani che alla fine hanno risposto con proiettili veri. Nella notte ferito a morte a Tulkarem un 18enne
La terza Intifada. Uccisi due ragazzi palestinesi uno aveva 13 anni
di Fabio Scuto


BETLEMME. I CINQUANTA ragazzini del campo profughi di Aida non hanno nemmeno aspettato di arrivare alla Middle School di Betlemme che dista un paio di chilometri per mettere giù gli zainetti. Con questi hanno invece formato la loro prima linea sull’incrocio che da questa parte della città porta verso la Chiesa della Natività. Hanno cominciato prima a insultare i soldati israeliani schierati sull’altro lato della strada, poi a loro si è aggiunto qualche adolescente e sono volati pietre e sassi, mentre l’aria si riempiva dell’odore nauseabondo dei lacrimogeni. Forse ringalluzziti dalla presenza dei “più grandi” gli shebab sono rimasti lì, a prendere il fumo dei gas, mentre la battaglia si faceva più violenta. Sono arrivate le molotov e le pallottole di gomma, ma con l’anima d’acciaio, e poi i colpi veri. Uno di questi ha centrato in petto Abed, un ragazzino di 13 anni, cresciuto con la famiglia nel piccolo campo profughi di Aida che è a ridosso della città. È stato dichiarato morto al pronto soccorso di Beit Jala, un suo compagno di scuola è stato invece ferito alle gambe. «Non è il primo martire e non sarà l’ultimo ma almeno è morto per la sua patria», dice Othman Abdullah, il padre del ragazzino sulla porta del piccolo ospedale, «come possono chiederci pace quando ci fanno questo?». La stessa domanda che si sono fatti i parenti delle vittime israeliane di questi giorni. L’esercito israeliano è in attesa di completare le indagini, ma nega che possano essere state usate “armi letali” in quello scontro.
Abed è il secondo teenager palestinese a essere ucciso in questo modo nelle ultime 24 ore in Cisgiordania — Houzeifa Othman Suleiman, 18 anni, è stato ucciso ieri notte a Tulkarem — dove sono scoppiati scontri a macchia d’olio che hanno investito anche Hebron, Jenin e i quartieri arabi di Gerusalemme. La morte del ragazzino ha scatenato la rabbia per le strade di Betlemme, dove circa 300 giovani hanno attaccato con pietre i soldati israeliani al check point d’ingresso della città, vicino al Muro di separazione costruito da Israele. Nella Città santa è stata battaglia in quasi tutti i sei quartieri arabi. In questa spirale di violenze, mai sopite, ma riaccese questa estate, solo nell’ultima settimana sono morti quattro israeliani — la coppia uccisa in auto giovedì scorso nei pressi di Nablus e i due accoltellati a Gerusalemme — e nove palestinesi. I numeri di questa crisi cominciano ad essere preoccupanti. Solo nelle ultime 24 ore la Mezzaluna Rossa, la Croce Rossa palestinese, ha curato 456 persone: 36 feriti da pallottole vere, 136 da quelle in gomma, il resto intossicati dai gas.
A dispetto di un cielo azzurro che solo il Medio Oriente sa dare in questa stagione, grava invece una cappa asfissiante che rende pesante il respiro, perché questa escalation risveglia ancora una volta lo spettro di una nuova Intifada. C’è chi ne parla per scongiurarne la venuta, altri per invece per accelerarne l’arrivo. Di fatto, israeliani e palestinesi — consumati da questa tragedia nella quale è difficile sempre stabilire quali sono i “buoni” e quali i “cattivi” — si preparano a una terza rivolta di piazza. Il rischio è che l’attuale situazione possa degenerare in una spirale di scontri, attacchi, rappresaglie come quelle della prima Intifada (1987-1993) e della seconda (2000-2005) che hanno provocato migliaia di vittime è molto alto. Dall’inizio dell’anno le violenze hanno causato 31 morti palestinesi e 8 israeliani. Esperti, diplomatici, ong da mesi mettono in guardia contro il pericolo di una nuova esplosione di violenze. La parola Terza Intifada è già su molte bocche già alla fine dell’anno scorso. Nessuno oggi è in grado di dire se stiamo andando a grandi passi verso una nuova crisi che potrebbe durare anni. La frustrazione e l’esasperazione tra i palestinesi è notevole dopo un’attesa durata decenni, il processo di pace è moribondo e la maggioranza — come ha rivelato l’ultimo sondaggio — ormai sostiene una rivolta armata in assenza dei colloqui di pace. Le autorità palestinesi sono ampiamente screditate e corrotte, mentre l’espansione in Cisgiordania degli insediamenti prosegue come il “blocco” attorno alla Striscia di Gaza. Lo scambio di reciproche accuse sul podio dell’Onu fra il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Abu Mazen, sono lo specchio delle speranze fallite, del futuro senza futuro. In questo la Spianata delle Moschee — il nocciolo del conflitto israelo- palestinese — ha fatto da catalizzatore. Sito sacro per i musulmani come per gli ebrei vive uno status quo precario, minacciato per i palestinesi da un’annessione “de facto” da parte di Israele. Netanyahu nega, ma i fatti non sempre confermano le sue parole. Per i palestinesi la difesa della Spianata è rimasto l’ultimo grido di battaglia per un’identità religiosa e nazionale.