Repubblica 28.10.15
La maledizione del Muro che perseguita l’Europa
Pensavamo che con il 1989 fosse caduta l’idea di Cortina di ferro. Ecco perché invece la storia si ripete
di Angelo Bolaffi
La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo creduto che la caduta del Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo esattamente il contrario. Incapaci di trovare una risposta razionale e solidale alla migrazione di popolazioni che fuggono dalle guerre del Medio Oriente e attraversando i Balcani cercano salvezza nel Vecchio Continente, i governanti dei paesi dell’Est Europa pensano di poter risolvere il problema ricostruendo quella che per più di mezzo secolo
era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro. Già ma chi è l’autore di questa metafora geopolitica che ha segnato un capitolo fondamentale della storia del secondo dopoguerra in Europa?
È convinzione diffusa che il primo a parlare di cortina di ferro (iron courtain) sia stato Winston Churchill nel discorso tenuto il 5 marzo del 1946 al Westminstern College di Fulton (Missouri) per mettere in guardia l’Occidente e l’opinione pubblica mondiale su quanto stava accadendo nei paesi dell’Europa orientale “liberati” dall’Armata Rossa: «Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea si trovano tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia».
In realtà il vecchio statista inglese, artefice dell’alleanza antinazista tra i paesi anglosassoni e l’Unione Sovietica di Stalin, si guardò bene — sarebbe stato davvero molto imbarazzante — dal citare la fonte da cui aveva tratto quella formulazione. E soprattutto evitò di fare il nome di chi prima di lui aveva parlato di una cortina di ferro. Era stato il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels che il 26 febbraio del 1945 sulla rivista nazista Das Reich aveva scritto: «Se il popolo tedesco depone le armi, i sovietici, in base agli accordi presi da Roosevelt, Churchill e Stalin, occuperanno tutta l’Europa orientale e sud-orientale assieme a gran parte del Reich. Una cortina di ferro scenderà su questo enorme territorio controllato dell’Unione Sovietica, dietro la quale inizierebbe un massacro di massa col prevedibile plauso della stampa ebraica di Londra e New York».
Ma in realtà neppure Goebbels è il vero autore di questa espressione. Infatti sempre nella stessa rivista Das Reich qualche settimana prima che apparisse l’articolo di Goebbels era uscita firmata “cl Lissabon” una analisi delle conseguenze delle conferenze di Mosca (ottobre del 1944) e di Jalta (inizio di febbraio del 1945). In questo articolo compare per la prima volta quella espressione: «Una cortina di ferro di fatti compiuti dai bolscevichi è scesa su tutta l’Europa sud-orientale nonostante il pellegrinaggio di Churchill a Mosca dinnanzi alla scelta di Roosevelt (…) essa discende inesorabile sull’Europa (...). Il Dipartimento di Stato e il Foreign Office fanno a gara per inventare un qualche marchingegno diplomatico al fine di dare nei loro paesi l’impressione che anche le potenze occidentali in qualche modo collaborino a manovrare la cortina di ferro prima che dietro di essa scompaia tutta l’Europa».
Ma chi c’era dietro la sigla “cl Lissabon”? Già nel lontano 1964 lo storico Karl Heinz-Minuth in un saggio apparso sulla rivista Geschichte in Wissenschaft und Unterricht aveva cercato ma senza successo di venire a capo del mistero. Oggi grazie alle ricerche di Georg Meyer, uno storico di questioni militari, conosciamo il nome dell’autore. Si tratta di Max Walter Clauss: nato nel 1901 (morì nel 1988), aveva studiato ad Heidelberg presso Alfred Weber e Robert Curtius. Protagonista della vita mondana e dei salotti della Germania di Weimar, Carl Schmitt lo riceveva a casa sua a colazione, aveva rapporti tra gli altri con Carl Jacob Burkhardt (in una lettera del 1971 lo definisce «un uomo, come lei, così politicamente dotato, una personalità ricca di esperienza, del tatto necessario e di savoir vivre»), con Thomas Mann e T.S. Eliot. Quest’ultimo dopo una visita a Londra di Clauss ne parla come
mon cher ami et confrère . Traduttore di Monsieur Test di Valéry (una recente edizione Suhrkamp prende ancora a riferimento questa traduzione), legato alla cerchia politico-culturale cui faceva parte anche Hoffmansthal, Clauss in qualità di redattore della Europäische Revue sostenne la necessità di «rendere cosciente l’unità spirituale dell’Europa». Partecipò alle riunioni di gruppi cattolico-reazionari a Barcellona, Cracovia e anche a Milano dove pur essendo stato invitato Mussolini decise di non farsi vedere.
Divenuto un fervente sostenitore del regime hitleriano Clauss evitò gli anni della guerra e del primissimo dopoguerra lavorando come giornalista nel Portogallo di Salazar del cui regime fece una calda apologia in un saggio apparso in una rivista tedesca.
All’inizio degli anni ’50 fece ritorno diventando un collaboratore del ministro dell’economia Erhard in una Germania nella quale gli ex nazisti continuavano a occupare decisivi posti di potere. Il suo saggio più importante apparve nel 1952 col titolo Il cammino verso Jalta. Responsabilità di Roosevelt . In esso oltre a sostenere che Roosevelt «avrebbe sulla coscienza la responsabilità della guerra» — un «servizio alla vendetta ebraica mondiale» — Clauss continua a difendere la sua tesi reazionaria tipica della Kulturkritik secondo la quale l’Europa avrebbe dovuto contrapporsi sia al bolscevismo che al materialismo americano: «poiché allora il mondo senza di noi sarebbe il mondo ideale per bolscevismo e americanismo, un mondo culturalmente desolato senza storia, barbarico e livellatore, un mondo senza il volto europeo. A questo vero declino dell’Occidente nel XX secolo si contrappone la realtà combattiva dell’Europa». Insomma un manifesto dell’europeismo reazionario che purtroppo ancora oggi continua a circolare presentandosi talvolta come protesta contro “l’imperialismo americano”.
Per fortuna l’idea d’Europa che ha vinto è un’altra: è l’idea che lega i valori europei e il futuro politico del Vecchio Continente alle grandi tradizioni occidentali dell’illuminismo, della rivoluzione americana e francese. E al suo cuore c’è una Germania lontanissima da quella sognata da Clauss. Una nazione che ha appreso a proprie spese che pensare di “vagabondare” tra Occidente e Oriente è una fatale illusione dalle conseguenze catastrofiche. Una Germania, insomma, per dirla col titolo di una magistrale opera dello storico tedesco Heinrich Winkler, che ha percorso «il suo cammino verso Occidente».