Repubblica 19.10.15
Fino a quando durerà la crisi economica?
di Moisès Maim
PER quanto tempo ancora il mondo dovrà soffrire una situazione in cui è difficile trovare lavoro, i salari scendono e i governi sono costretti a tagliare la spesa, ridurre i servizi pubblici ed eliminare programmi sociali? Questa è la domanda che si pongono milioni di persone colpite dalla crisi economica. Dal Canada all’Italia, dalla Cina al Brasile, dall’Indonesia alla Russia, la domanda è la stessa: fino a quando? La risposta, naturalmente, dipende dalla diagnosi delle cause. Ci sono quattro interpretazioni principali delle ragioni per cui l’economia globale è così anemica.
La prima è che è arrivato a compimento il «superciclo delle materie prime». All’inizio di questo secolo si è avuto un forte aumento dei prezzi dei metalli, degli idrocarburi, dei prodotti agricoli e in generale di qualsiasi tipo di materia prima. Fra il 2000 e il 2010, il prezzo medio si è duplicato, mentre durante tutto il Novecento era sceso in media di uno 0,5 per cento ogni anno. La crescita dell’economia mondiale e soprattutto la fame di materie prime dell’Asia, e in particolare della Cina, ha creato una forte domanda, che ha fatto crescere in modo clamoroso i prezzi. Dal 2011, però, la tendenza si è invertita e i prezzi sono caduti del 40 per cento, colpendo le economie dei Paesi esportatori, che avevano avuto un boom nel momento in cui prezzi erano alti. Ma perché sono in difficoltà anche Paesi come la Cina o le economie di Europa e Giappone, che non dipendono dall’esportazione di materie prime?
Una seconda interpretazione delle cause della crisi è incentrata sulla Cina. Il colosso asiatico è stato una delle locomotive principali (a tratti l’unica) dell’economia mondiale. Durante la crisi economica del 2008, quando le economie europee e quella statunitense sono crollate, il governo cinese adottò un programma di espansione economica molto aggressivo: aumentò la spesa pubblica e la liquidità monetaria, ampliò il credito, stimolò gli investimenti e prese misure di ogni genere per mantenere il dinamismo dell’economia e la sua capacità di sostenere l’economia globale. C’è un dato molto significativo che illustra la portata di questo stimolo economico: fra il 2010 e il 2013, in Cina, è stato usato più cemento di tutto quello impiegato negli Stati Uniti nel XX secolo. Ma questa espansione si è dimostrata insostenibile, e alcuni sintomi suscitano inquietudine rispetto alla salute economica della Cina. Secondo i più pessimisti, la locomotiva ha deragliato; secondo altri, si tratta semplicemente di una decelerazione temporanea: in ogni caso, la realtà è che l’economia mondiale non può più contare sulla Cina come compratore di materie prime o come fonte di finanziamento per il resto del mondo.
La decelerazione cinese, tuttavia, non spiega l’anemia economica dell’Europa e degli altri Paesi sviluppati. Secondo l’economista Kenneth Rogoff, questa debolezza nasce dalla fine di quello che lui definisce il «superciclo del debito». Rogoff sostiene che per un periodo prolungato Paesi, imprese e persone si sono indebitati eccessivamente, e ora subiscono inevitabilmente i «postumi della sbornia», e sono costretti a ridurre i forti debiti accumulati. Questa necessità di dedicare risorse alla riduzione del debito ovviamente limita le possibilità di consumo e investimento, e questo a sua volta influenza negativamente la crescita economica. In quest’ottica, le economie torneranno a crescere a un ritmo maggiore una volta che l’indebitamento sarà sceso.
Larry Summers, altro illustre economista, non la vede allo stesso modo. Riconosce che il forte debito esistente può inibire la crescita economica, ma non è nulla a confronto della «stagnazione secolare», che secondo Summers rappresenta la minaccia più seria per l’economia mondiale. Questa malattia economica si verifica quando i risparmi superano largamente gli investimenti. Le cause sono molteplici: incidono fattori demografici come la struttura per età, la composizione e la distribuzione geografica della forza lavoro nel mondo, la disuguaglianza, l’impatto delle popolose economie asiatiche sui salari e l’occupazione nel resto del pianeta e la costante incorporazione di nuove tecnologie che eliminano posti di lavoro nel momento stesso in cui accrescono la capacità di produzione.
Che cosa fare di fronte a tutto questo? Summers raccomanda di stimolare il più possibile le economie, utilizzando tutti gli strumenti di cui dispongono i governi per contrastare le forze che alimentano la stagnazione. Quale di queste visioni è corretta? Tutte. Ognuna illustra un aspetto importante della realtà economica mondiale. Tutte implicano che la crisi, purtroppo, è ancora ben lungi dall’essere finita, anche se in alcuni Paesi possono esserci segnali di recupero. Ma forse il messaggio centrale di queste diagnosi è che ora i governi pagheranno più a caro prezzo e più rapidamente i loro errori di politica economica. L’improvvisazione, il populismo e la ricerca di scorciatoie illusorie prolungheranno la crisi.
Twitter @moisesnaim (Traduzione di Fabio Galimberti)