venerdì 16 ottobre 2015

Repubblica 16.10.15
Così vicina così lontana ecco come l’arte antica diventa contemporanea
di Salvatore Settis


Basta una sfera di vetro blu per trasformare un calco del Fauno Barberini (II secolo a.C.) in un’opera di Jeff Koons (2013)? Sì, a quel che pare, visto che il gesso (con la palla di vetro) è ora esposto a Palazzo Vecchio come opera d’arte contemporanea, con il titolo Gazing Ball ; e quando in omaggio al pudore di un dignitario arabo lo si è voluto nascondere dietro un paravento, non è chiaro se l’impudico esibizionista di nudità fosse l’antico scultore ellenistico o la star della scena artistica di oggi. L’arte greco-romana è una presenza ossessiva nell’arte di questi anni: un altro calco dello stesso Fauno Barberini è stato vestito da hipster dal francese Léo Caillard, il Laocoonte è stato rivisitato e riproposto da sir Eduardo Paolozzi, da Richard Deacon, Patrick Alò, Marco Borgianni e tanti altri, fino alla mostra (in corso a Roma) Laocoonte e i suoi figli di Germano Serafini. Da Giulio Paolini a Oliver Laric, antiche figure di dei e di eroi popolano (spesso in gesso) mostre e musei di arte contemporanea, ed è forse il caso di chiedersi perché.
Come ha scritto Dieter Roelstraete, «un numero crescente di artisti di ogni età e formazione adotta espressioni retrospettive, storiografiche, dal documento di archivio allo scavo archeologico». Frugare nella storia estraendone “reperti”, ora con finti scavi o immaginando civiltà scomparse (come Anne e Patrick Poirier), ora ripescando frammenti del passato nei musei (come Fred Wilson, che ha coniato la formula “geologica” mining the museum ) è oggi un aspetto essenziale della ricerca artistica: “l’artista come storico”, per usare il titolo di un famoso saggio di Mark Godfrey.
Eppure l’onda d’urto dell’arte contemporanea, travolgendo regole, abitudini, pratiche consolidate, sembrava aver innalzato un’impenetrabile barriera verso l’arte “antica”, confinandola nel retrobottega della memoria in nome di un presente che sempre si rinnova, ma non sedimenta, non viene da lontano, né accetta di farsi esso stesso “passato” col trascorrere degli anni: o è presente, o non è. Anche (forse soprattutto) gli studiosi di arte antica sono dominati da questo paradigma della frattura, della discontinuità, della grande muraglia fra “antico” e “contemporaneo”: è per questo che spesso, per rivitalizzare un museo storico attraendo visitatori, lo si riduce a mera cornice di mostre di artisti d’oggi, quasi che da essi debba venire non il confronto né lo stimolo, ma la vera, l’unica giustificazione culturale e politica dell’istituzione- museo.
Rarissimo è che avvenga il contrario, e cioè una mostra di arte antica in un contesto contemporaneo: perciò subito mi attrasse e mi convinse la proposta di progettare una mostra di arte classica per l’apertura della Fondazione Prada, nei nuovi spazi progettati da Rem Koolhaas. Scegliere ed esporre opere d’arte greca e romana in un contesto architettonico di fortissimo carattere, con un duro contrasto fra pieni e vuoti, fra luce naturale e pareti cieche, fra argentee pareti “industriali” di schiuma di alluminio e un pavimento di luminoso travertino iraniano, era una bella sfida, ma non bastava. Era necessario tematizzare l’arte classica, evitando la trappola di un più o meno giustificato “parallelo” con opere contemporanee ( come troppo spesso si fa, invitando artisti d’oggi a “confrontarsi” con l’arte del passato).
L’arte classica doveva esser presentata rigorosamente per quel che è, “da sola”, ma scegliendone un aspetto che risuonasse sia con la nuovissima architettura che con le collezioni di arte contemporanea della Fondazione Prada esposte non lontano.
Perciò Serial Classic: e cioè una prospettiva sull’arte greco- romana che ne sottolinea la serialità, la tensione verso il multiplo, la ripetizione, la copia, e che proprio in questa sua intima natura prova a indicare la vera radice del suo esser “classica” (cioè modellizzabile). Sommuovendo il pavimento come in un movimento tellurico, ritagliandovi “isole” in cui le lastre di travertino, innalzate sopra spessori di acrilico, si squarciavano ad accogliere le sculture antiche (evitando l’uso di piedistalli), Koolhaas ha interpretato e moltiplicato la forza espressiva di quelle statue. Ci ha aiutato a mostrare che l’arte classica può non essere irrigidita in un astratto culto delle forme; che ogni arte può essere contemporanea.
Pubblichiamo un estratto della lectio magistralis che Salvatore Settis terrà a Fumane di Valpolicella oggi in occasione del ritiro del premio Allegrini “L’arte di mostrar l’arte”