martedì 13 ottobre 2015

Repubblica 13.10.15
Sull’orlo di una crisi d’identità
Dall’ex campione Bruce Jenner oggi Caitlyn alla bianca che si finge nera, nel 2015 le linee di confine in materia di genere, sesso e razza sono state messe in discussione
Ma la confusione spesso si è rivelata un vantaggio
di Enrico Franceschini


Siamo tutti “trans” o “bi” o “poli-ambi-omni” in una fusione di ruoli o somma di parti Chi crediamo di essere, ha domandato il premio Pulitzer Wesley Morris sul “New York Times”

LONDRA “PENSO, dunque sono” è il manifesto dell’Homo Sapiens. Ma quando l’uomo e la donna d’oggi si chiedono “chi sono” esattamente, o meglio “cosa sono”, la risposta è più complicata. Caitlyn Jenner è una donna, una delle più popolari del web, con milioni di follower su Twitter, ma era un uomo, il campione olimpionico Bruce Jenner, fino a quando non ha annunciato di avere cambiato sesso. Rachel Dolezal era un’attivista dei diritti dei neri, una fra le loro più note e determinante rappresentanti in America, fino a quando i suoi genitori non hanno mostrato al mondo il proprio volto di bianchi, smascherandola come una truffatrice o una mitomane: sebbene non manchino sostenitori secondo cui Rachel è semplicemente transracial , transrazziale, qualunque sia il significato del termine. Un personaggio immaginario, Atticus Finch, era l’avvocato bianco protagonista del romanzo di Harper Lee Il buio oltre la siepe , un classico del ‘900 e uno dei più forti simboli della lotta contro il razzismo negli Stati Uniti: «In questo paese nelle aule dei tribunali gli uomini sono tutti uguali», la sua arringa per difendere un nero ingiustamente accusato di avere stuprato una donna bianca, è stata una fonte d’ispirazione per generazioni di giovani che hanno scelto di studiare giurisprudenza nella speranza di contribuire a creare un mondo migliore; ma nel sequel della Lee uscito pochi mesi fa, Va’, metti una sentinella , si scopre che Finch è diventato, o forse era sempre stato, un po’ razzista anche lui. Il crollo di un mito? O la riprova che tutti sono più contraddittori e complessi di quanto sembri? E che la confusione, invece di spaventarci, deve farci sentire più umani, se non anche più forti?
Il 2015 è stato l’anno della crisi di identità: l’anno in cui titoli dei giornali e avvenimenti culturali ci hanno messi a confronto con la flessibilità delle linee di confine in materia di genere, sesso, razza e perfino reputazione. Naturalmente le frontiere dell’identità, sessuale, razziale o personale, non sono mai state perfette neanche prima, ma negli ultimi tempi la questione è emersa con prepotenza in diverse circostanze e a differenti latitudini, portandola all’attenzione delle cronache e alle riflessioni di commentatori, sociologi, psicologi. «Chi crediamo di essere? », domanda provocatoriamente Wesley Morris, vincitore del premio Pulitzer, sul New York Times , per rispondersi che oggi non sempre corrispondiamo all’immagine che vediamo riflessa nello specchio delle nostre aspettative: siamo tutti, o quasi, un po’ “trans” qualcosa, un po’ “bi” qualcosa, “poli-ambi- omni”, in una fusione di ruoli, somma di parti, cocktail di ragioni ed emozioni.
Gli esempi vanno ben oltre i casi eclatanti di Caitlyn Jenner, Rachel Dolezal o del nuovo romanzo di Harper Lee. L’identità più fluida e malleabile affiora ovunque, dagli sketch di Amy Schumer alla tivù americana, che riconsiderano la confusione dei generi e dei comportamenti (la promiscuità ti rende macho o puttana?); a Robert De Niro che interpretando uno stagista 70enne nell’ultimo film di Nancy Meyers, The intern , incoraggia la sua giovane boss Anne Hattaway a non sacrificare la carriera per la famiglia, con una logica femminista degna di Lena Dunham, l’attrice-sceneggiatrice del serial cult Girls ; a Ryan Adams che fa il remake di un album di Taylor Swift, voce maschile per una prospettiva femminile, seguendo il trend di cantanti androgini come Le1f, Stromae e Shamir, per tacere di Conchita Wurst, la drag queen con la barba, vincitrice dell’Eurovi- sion Song dell’anno scorso.
È un fenomeno che viene da lontano, cresciuto gradualmente nel corso di un decennio in cui le nuove tecnologie, digitali e non, ci hanno aiutati a costruire identità ausiliarie: una “second life”, un altro-io, un avatar di noi stessi, talvolta simile all’originale, altrimenti diverso o addirittura opposto. La chirurgia estetica altera forme e lineamenti. Photoshop cambia i nostri profili online facendoci più belli, più alti, più snelli. Facebook e Twitter generano identità fasulle, posticce, inesistenti, fanno rivivere Albert Einstein, Elvis Presley, Marylin Monroe, che cinguettano i propri pensieri sui social network come se non ci avessero mai lasciati. Gli hacker rubano identità reali per entrare nelle “vite degli altri”. Su Amazon ci sono scrittori che acquistano recensioni ipocrite, fabbricate su misura, per scalare le classifiche delle vendite.
I reality show televisivi danno fama agli anonimi, trasformano il banale in eccezionale. Oppure rivoluzionano opinioni di massa, come nel recente caso di The Great British Bake Off, gara di pasticceria, vinta da una giovane musulmana con il velo: il cui successo ha fatto di più per allargare il significato di “identità britannica”, hanno commentato i giornali, di quanto erano riuscite a ottenere finora le iniziative e le leggi governative. A colpi di torte, Nadya Hussain ha sdoganato l’Islam nel Regno Unito: nessuno dubita che possa giurare contemporaneamente fedeltà al Corano e alla regina. E come giudicare l’assalto di un gruppo di anarchici a un caffè yuppie (anzi “hipster” come si dice ora) su Brick Lane, strada una volta disagiata dell’East End di Londra, ora imborghesita da commercio e turismo, quando salta fuori che i dimostranti erano ricercatori e studenti della middle-class mentre i due barbuti proprietari del caffè sono self-made men che hanno investito tutti i propri pochi risparmi nell’iniziativa? Chi è yuppie e chi è hippie in questo scontro?
Ma la confusione identitaria può anzi deve essere percepita come un vantaggio, non come problema. Quale soluzione per i curdi iracheni, siriani e turchi, il quotidiano Guardian suggerisce «la crisi di identità del Sud Tirolo », dove la gente «vive in Italia ma si sente austriaca», parafrasando la vecchia battuta di un ambasciatore argentino secondo cui gli abitanti di Buenos Aires in fondo sono «italiani che parlano spagnolo e pensano di essere inglesi».
Mentre la sociologa Francesca Conti dell’Università del Sussex studia l’atteggiamento mentale degli espatriati italiani in Inghilterra, che ormai si sentono stranieri quando tornano in Italia, italiani quando sono a Londra e non appartengono più del tutto né all’una né all’altra, figli di una cultura globale che ricicla valori e caratteristiche nel melting pot , il pentolone razziale delle grandi metropoli invase dai nuovi immigrati. «Da ragazzo mi chiedevo chi ero, quale era la mia identità nazionale, culturale, privata, e non sapevo rispondere alle domande di compagni di scuola, insegnanti, parenti », dice lo scrittore Tom Rachman, autore del bestseller Gli imperfezionisti , nato a Londra da madre ebraica, cresciuto a Vancouver, vissuto a Roma, tornato a Londra, in attesa di un figlio da un’italiana. «Adesso mi sento arricchito da ogni tassello della mia esperienza, mi considero un po’ ebreo, un po’ inglese, un po’ canadese, un po’ italiano, e mi va bene così».