La Stampa TuttoLibri 3.10.15
Nel cuore di Primo Levi per sempre deportato
Fra il dovere della testimonianza dopo il lager e la vocazione precedente: quella di scrittore
di Andrea Cortellessa
Se ne sono conservate poche, di foto segnaletiche degli internati ad Auschwitz; all’arrivo dell’Armata Rossa, le SS le bruciarono quasi tutte. Di fronte e di profilo, s’intitola il ritratto di Primo Levi del suo maggior studioso, Marco Belpoliti (un libro imponente, da ora in poi strumento indispensabile per chi appunto studia Levi, ma anche lettura appassionante per ogni suo lettore): come per tradizione, appunto, le foto segnaletiche. Come dire che «Levi resta sempre un deportato», anche dopo la liberazione (lo dice l’incubo su cui si chiude La tregua): sino alla sua tragica fine.
All’indomani della morte, scrisse Pietro Chiodi di Beppe Fenoglio che «forse per vivere bisogna dimenticare, ma certamente per capire bisogna ricordare». E davvero Levi mai ha smesso di cercare di capire – senza dunque mai cessare di ricordare: a se stesso e a tutti gli altri. Prigioniero di quella testimonianza cui, per più della sua metà, dovette sacrificare l’esistenza; ma alla quale, secondo alcuni, egli in quanto «salvato» la doveva. Quel dovere «gigantesco», più grande di lui come di chiunque altro, confliggeva però con una sua vocazione preesistente al Lager: quella di scrittore.
A lungo le identità di testimone e di scrittore le avvertì lui per primo come incompatibili. Com’è noto si definiva un «centauro»: italiano ma ebreo, chimico ma letterato. La sua vera ambivalenza era però proprio questa, testimone ma scrittore. Perché (spiega Belpoliti, e aveva indicato un paio d’anni fa Mario Barenghi) necessariamente «lo scrittore manipola la realtà per scrivere, la adatta facendo uso della finzione»: la quale però per Levi era eticamente assimilabile alla menzogna (non a caso la sua unica polemica «letteraria» fu con Giorgio Manganelli, suo antipode speculare). L’esigenza psichica, prima che il dovere etico, della chiarezza si spiega perché «l’oscurità lo insegue continuamente». Levi era ben consapevole che Se questo è un uomo non è affatto un mero documento; anche noi lo capiamo meglio confrontandolo con le sue testimonianze vere e proprie (raccolte da Fabio Levi e Domenico Scarpa, all’inizio di quest’anno, in Così fu Auschwitz). In un suo capitolo-chiave, Belpoliti analizza un brano del Sistema periodico, Vanadio, confrontandolo con le vere lettere che nel 1967 Levi si scambiò col collega chimico della I.G. Farben, la casa produttrice del gas Zyklon B, incontrato ad Auschwitz (e che alla fine della contesa – come Franz Stangl dopo quella con Gitta Sereny, In quelle tenebre – di quella fatica muore).
Un concetto-chiave di quello che è insieme il testamento e il capolavoro di Levi, I sommersi e i salvati, è la «zona grigia»: che separa e insieme congiunge i carnefici e le vittime. Anche lui, in quanto «salvato», temeva di farne parte? In copertina al suo libro Belpoliti ha voluto uno degli inquietanti fotoritratti realizzati da Mario Monge l’anno prima del suicidio, nei quali Levi cela il proprio volto dietro maschere di animali da lui stesso realizzate con fili di rame, scarti di fabbrica che possono ricordare i fili spinati. I suoi testi fantastici, che imbarazzavano lui per primo (al punto che nel ’66 pubblica Storie naturali sotto pseudonimo), avevano a loro volta nel Lager la propria chiave segreta. Una chiave a stella, per dirla con un suo titolo: la stella di Davide cucita sulla giacca. Davvero come dice Belpoliti, e a dispetto delle apparenze, «nulla è semplice in un racconto di Levi».
Di sicuro la sua opera ci mostra una zona grigia, un’ambiguità che percorre ogni testo fondato sul «vero» (e l’ambiguità finì per riconoscerla come un valore, Levi). Il Centauro non fu considerato un «vero» scrittore, a pieno titolo, sino all’inizio degli anni Ottanta; oggi invece nessuno scrittore italiano, forse, è letto quanto lui nel mondo. Oggi, che la non-fiction è divenuta letterariamente egemone, capiamo che non fu un grande scrittore malgrado la sua testimonianza, ma per la sua testimonianza. E lui stesso capì che non era stato un testimone essenziale malgrado il suo talento di scrittore: proprio
per quel talento, in effetti, noi oggi lo leggiamo – e gli crediamo – mentre tanti altri li abbiamo dimenticati. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», aveva scritto. Lo stesso si può dire della letteratura. Fallace, senz’altro; e davvero meravigliosa.