Il Sole Domenica 25.10.15
Attualità delle Lettere persiane
Rileggere Montesquieu
Cosa rischiano i paesi dell’Occidente se cedono al fascino del modello cinese di capitalismo antidemocratico
di Gabriele Pedullà
Pochi filosofi del passato sono presenti nella nostra vita di tutti i giorni quanto Montesquieu. Le nostre costituzioni sono modellate sul principio della separazione dei tre poteri, legislativo esecutivo e giudiziario (formulata per la prima volta nello Spirito delle leggi). Ogni discorso sulla possibilità di esportare la democrazia nei paesi non occidentali è, consapevolmente o meno, debitore delle sue riflessioni sul dispotismo. Ma anche quando ci confrontiamo con un libro e un film che adopera deliberatamente un punto di vista “alieno” per presentarci un ambiente o un mondo, secondo il così detto principio dello “straniamento”, è soprattutto alla grande lezione di Montesquieu che, una volta di più, conviene risalire, e al suo capolavoro romanzesco, Le lettere persiane, con la geniale intuizione di rappresentare l’Europa del primo Settecento attraverso le impressioni di un piccolo gruppo di viaggiatori orientali. Al posto dei persiani potremo incontrare un bambino, un extraterrestre o magari un migrante pakistano, ma il meccanismo – da allora ripetuto infinite volte – rimane essenzialmente lo stesso. Il Sé colto nell’occhio dell’Altro.
Come tutti i grandi pensatori, Montesquieu rischia però di essere ricondotto a una manciata di idee e di formule di straordinario impatto. Il migliore antidoto, in questi casi, è sempre tornare direttamente ai testi, e per farlo oggi disponiamo di uno strumento straordinariamente utile: la recentissima edizione di tutte le opere del presidente del parlamento di Bordeaux approntata da uno dei suoi massimi specialisti, Domenico Felice. Il volume comprende, tra l’altro, tutti e tre i capolavori di Montesquieu: per l’appunto, Le lettere persiane (1721), Le considerazioni sulla causa della grandezza e della decadenza dei Romani (1734) e Lo spirito delle leggi (1748); un secondo tomo, con tutti i testi pubblicati dopo la morte di Montesquieu (abbozzi, frammenti, progetti incompiuti) dovrebbe uscire a breve, offrendo ai lettori italiani quella che è destinata a rimanere per lungo tempo l’edizione di riferimento, anche in virtù del ricco apparato di note e del testo originale francese a fronte.
Il saggio introduttivo di Felice costituisce da solo una piccola monografia, dove la militanza pluridecennale del curatore negli studi su Montesquieu si coglie soprattutto dal modo in cui riesce a far dialogare i testi più celebri e più vulgati con una miriade di altri scritti noti esclusivamente a chi da molto tempo ha eletto le sue opere a propria residenza permanente. In particolare, anche se forse Felice non tributa sempre al talento di romanziere di Montesquieu tutte le lodi che esso merita e preferisce insistere sui contenuti della sua unica ma mirabile prova narrativa, è assai importante che questa edizione rivendichi con forza la sostanziale unità dell’opera del pensatore francese.
Qui potrà essere aggiunto almeno un altro tassello. Le lettere persiane sono lette tradizionalmente come un geniale gioco di rovesciamento a due termini: l’Europa e l’Asia, l’Occidente e l’Oriente, dove il mondo cristiano cui appartiene Montesquieu viene osservato, parzialmente frainteso ma anche sostanzialmente demistificato dall’apparizione di un Altro che si rivela capace di comprenderlo proprio in virtù della propria estraneità. Bene, in realtà, a leggerlo attentamente, il romanzo chiama in causa un terzo polo decisivo: la moglie del saggio viaggiatore persiano Uzbek, rinchiusa assieme ad altre compagne di sventura nel suo serraglio privato. Alla fine del volume Roxane, che nel frattempo ha ingannato e tradito Uzbek, si suiciderà, non senza però aver inviato prima al marito una lettera nella quale smaschera a sua volta la sua apparente giustizia. Pure il saggio straniero si rivela allora nella sua natura di despota; ma con questo ribaltamento Montesquieu sembra anticipare in chiave romanzesca quello che sarà il principio guida dello Spirito delle leggi: un potere senza limiti (come quello di cui Uzbek dispone sulle mogli-schiave del suo harem) è sempre cattivo, anche se a esercitarlo fosse il re-filosofo di Platone.
Eppure leggere oggi Montesquieu può essere importante non solo per ripercorrere la genealogia di alcune idee contemporanee o per passare qualche decina di ore in compagnia di una intelligenza superiore. I problemi di Montesquieu ci riguardano perché ci aiutano a vedere anche con più chiarezza ciò che i paesi occidentali potrebbero perdere per effetto del crescente fascino che il modello cinese di capitalismo anti-democratico esercita su fasce sempre più estese delle élite economiche internazionali. In un libro recente, forse la più acuta diagnosi della cesura provocatasi all’interno della tradizione liberale con l’avvento del così detto neo-liberalismo, Pierre Dardot e Christian Laval hanno mostrato come il modello della nuova razionalità politica promosso dai discepoli di Lippmann, von Mises e von Hayek non sia lo sguardo reciproco del bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma il Panopticon e il Codice costituzionale di Bentham. Bentham, un democratico radicale, aveva teorizzato infatti una prigione nella quale tutti i presenti si sentissero sempre potenzialmente spiati da un unico guardiano posto al centro di una immaginaria circonferenza e un ufficio nel quale i dipendenti venissero perennemente osservati dalla popolazione nello svolgimento dei loro compiti. È a questo modello di sorveglianza (sterilizzato dei suoi tratti politici democratici e radicali) che secondo Ducrot e Laval si ispirano le retoriche attuali dei nuclei di valutazioni, delle agenzie di controllo e del rating che stanno ridisegnando le nostre istituzioni e pratiche politiche, consegnando il potere a una casta di controllori a loro volta sottratti a ogni controllo. Esattamente il contrario del modello teorizzato da Montesquieu sul quale (almeno formalmente) ancora si reggono le nostre costituzioni.
Ducrot e Laval sono due marxisti foucaultiani e Montesquieu non figura tra i loro punti di riferimento. Eppure – viene da pensare – proprio dalle sue pagine avrebbero potuto trarre più di un suggerimento per il loro ammirevole La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi). Nelle ricostruzioni storiografiche tradizionali Montesquieu è il pensatore dei liberali, laddove la tradizione socialista ha preferito guardare piuttosto a Rousseau e alla sua teoria, in fondo già così romantica, della “volontà popolare”. Oggi però siamo finalmente in grado di vedere come Montesquieu sia stato invece probabilmente il più conseguente continuatore (per quanto in chiave moderata) del grande progetto di repubblicanesimo radicale di Niccolò Machiavelli. Le parole d’ordine sono le stesse: rifiuto di qualsiasi potere sprovvisto di vincoli (per Machiavelli l’eccezione necessaria è il legislatore al momento della fondazione o rifondazione dello stato); accorto bilanciamento dei poteri attraverso la costituzione mista già teorizzata, tra gli antichi, da Polibio e soprattutto da Dionigi di Alicarnasso; valutazione positiva dei conflitti intestini regolati (un’altra idea di Dionigi lasciata da Machiavelli in eredità al pensiero politico moderno).
Il risultato di questo seminale fraintendimento di Montesquieu ha fatto sì che, quando non si è accontentata di facili slogan anarcoidi, la tradizione socialista abbia rinunciato ad affrontare la questione dello stato, limitandosi ad annunciare il suo imminente superamento per poi – già con Lenin – promuoverne invece l’espansione illimitata (secondo l’idea di Stato e Rivoluzione, che, prima di estinguersi del tutto, lo stato dovesse brillare un’ultima, gigantesca vampata, proprio come una fiamma). Oggi, Ducrot e Laval, riconoscono che la teoria socialista non è mai riuscita a elaborare una sua idea di governamentalità alternativa rispetto a quelle dell’esercito e dell’azienda che hanno dominato l’Occidente moderno. Montesquieu non trova posto nella loro cassetta degli attrezzi, ma c’è da pensare che, magari integrato e corretto con il suo “maestro” Machiavelli, anche i due filosofi francesi potrebbero trarre dalle sue pagine più di uno spunto decisivo per provare a pensare un governo degli uomini ispirato ai tre fini della vita associata secondo lo Spirito delle leggi: libertà, giustizia, mitezza.
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Montesquieu, Tutte le opere (1721-1754), a cura di Domenico Felice, Bompiani, Milano,
pagg. 2.922, € 65,00