il manifesto 8.10.15
Senato, la maggioranza corre da sola
Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla
La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partito
di Andrea Fabozzi
Dunque con la nuova Costituzione il governo potrà imporre al parlamento di votare i suoi disegni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in materia elettorale; il partito che vincerà le elezioni con la nuova legge Italicum potrà dichiarare in solitudine lo stato di guerra — e nel caso prorogare la durata della legislatura — e persino eleggere da sé il presidente della Repubblica. Lo ha stabilito in un solo giorno di lavoro il senato, respingendo ogni emendamento delle opposizioni alla riforma costituzionale. Il tema del racconto è quello in auge del superamento del bicameralismo paritario. Lo svolgimento, come dimostra la giornata di ieri, è una sostanziale modifica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al parlamento. Con la collaborazione decisiva dei senatori di Verdini, l’appoggio tempestivo nell’unico passaggio a rischio di Forza Italia e la resa definitiva della minoranza Pd.
Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schieramento che sta cambiando la Costituzione si è confermato lontano dalla maggioranza assoluta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I senatori di Verdini inchiodati a votare ai loro banchi in alto a destra vengono ricompensati: sono stabilmente decisivi per il governo. Tra due sedute rientreranno anche i due gesticolanti espulsi per oscenità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costituzionale ad aspettarli, perché con la rinuncia delle opposizioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il disegno di legge di revisione costituzionale corre. L’esame degli articoli potrebbe concludersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calendario per martedì, una diretta tv senza sorprese.
In aula il governo che giura di essere disponibile a discutere «nel merito» dà parere negativo a tutti gli emendamenti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole correre rischi). La maggioranza che quotidianamente bacchetta le opposizioni perché non fanno proposte «nel merito» si adegua monolitica, nel Pd si segnalano a tratti solo i voti contrari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Casson. Gli articoli da 12 a 16 passano senza storia, compresa la novità della legge elettorale che potrà essere sottoposta alla Consulta prima della promulgazione ma solo per iniziativa di una minoranza di parlamentari. La Corte aveva raccomandato di togliere questa connotazione politica alla richiesta, rendendola automatica. La sinistra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cambiare niente e fare presto ha prevalso anche qui. Di questo passo sono solo tre, fino a qui, gli articoli che dovranno tornare al senato per completare la prima lettura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di intervenire. Male, perché ha inserito le politiche sociali e il commercio con l’estero tra le materie che potranno essere devolute alle regioni a statuto ordinario.
Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ ballato, c’è stato rapido il sostegno di Forza Italia. Articolo 17, stato di guerra. Anche qui nessun cambio, la dichiarazione di belligeranza resta a disposizione della maggioranza assoluta della camera. Cioè quella che l’Italicum garantisce al primo partito con i suoi 340 seggi (oggi non è così perché deve votare anche il senato). Stavolta l’emendamento per alzare il quorum veniva dalla minoranza Pd, l’unico non ritirato in nome dell’accordo con Renzi, forse perché firmato non da un bersaniano ma dalla bindiana Dirindin. Con 14 senatori Pd a favore e 11 spariti dall’aula poteva passare, non fosse che Forza Italia è tornata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qualche deputato sequestrato dai nemici, il quorum troppo alto potrebbe essere un problema). Ventinove no decisivi, sommati a qualche astensione, molte assenze e il soccorso delle tre senatrici del gruppo dell’ex leghista Tosi. Dichiarare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordinaria può prorogare la durata della camera e rimandare le elezioni.
La Lega ha accusato in aula gli alleati berlusconiani di essersi svenduti agli avversari: «È il ritorno del patto del Nazareno». Ma può bastare la comunanza di idee sull’argomento bellico a spiegare la liaison. L’episodio giustifica però la rottura del patto delle opposizioni, durato un solo giorno. Unito a una lettera al presidente della Repubblica che quelli di Forza Italia hanno diffuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi decidessero di firmarla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivolgersi al Colle. E i grillini, che però hanno spiegato di averlo già fatto due settimane fa. Alle minoranze, penalizzate dal trasformismo e da una conduzione d’aula filo governo del presidente Grasso, non resta che studiare mosse di opposizione visibili e comprensibili per accompagnare l’approvazione della riforma. La Lega ha cominciato ieri pomeriggio il suo Aventino, i 5 stelle hanno sfilato le tessere dai banchi per sventolarle.
La minoranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che prevede quorum per l’elezione del presidente della Repubblica per niente impossibili per chi vincerà con l’Italicum. Fatti i calcoli, dal quarto scrutinio in poi mancherebbero al primo partito non più di 34 voti. Assai facilmente recuperabili, vista la capacità di attrazione dei vincitori. Il successore di Mattarella sarà votato alla fine della prossima legislatura; in questa i gruppi democratici sono già cresciuti di 23 parlamentari. Nemmeno l’articolo 21 è stato cambiato. In cambio della rinuncia ad allargare la platea dei grandi elettori (fino a ieri imprescindibile), la minoranza Pd ha ottenuto una promessa sull’articolo 39, la norma transitoria che di fatto sterilizza la più grande conquista dei bersaniani, l’indicazione dei nuovi senatori da parte degli elettori. Il governo presenterà oggi una sua proposta di modifica. Sarà una mezza soluzione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toccare. Il principio della doppia lettura conforme che la fronda dem ha accettato per l’articolo 2 vale anche qui.