il manifesto 11.10.15
La mente dimentica il corpo no
Aleksandr Lurija. L’impresa titanica che Aleksandr Lurija tentò per rimettere insieme i frammenti della coscienza di Lev A. Zaseckij, il soldato la cui ferita al cervello provocò una scissione tra le parole e i significati
di Valentina Pisanty
Lev A. Zaseckij aveva ventitré anni quando, il 2 marzo 1943, una pallottola gli si conficcò nella regione parieto-occipitale dell’emisfero destro. Si svegliò in un ospedale militare non lontano dal fronte russo occidentale con la memoria frantumata e il campo visivo dimezzato. La cartella clinica non autorizzava alcun ottimismo. Il proiettile aveva perforato la nuca sul lato sinistro, attraversato la massa del cervello, provocato infiammazioni nei tessuti circostanti e avviato un processo di cicatrizzazione e di atrofia cerebrale destinato ad avanzare negli anni a venire. Per effetto delle lesioni, Zaseckij aveva perduto interi settori di quella che oggi chiameremmo la memoria procedurale (quella che presiede alla lettura dell’orologio, alla vestizione o all’impiego degli utensili quotidiani), la capacità di rappresentare mentalmente le parti del proprio corpo, l’orientamento spaziale, il significato di molte parole, e tutte le conoscenze che aveva accumulato nella vita precedente, dal nome delle sorelle agli studi di ingegneria meccanica.
Nelle settimane successive fu trasportato da un luogo di ricovero all’altro finché, alla fine di maggio, approdò all’ospedale di riabilitazione neurochirurgica per i feriti di guerra negli Urali meridionali. Fu preso in cura da Aleksandr R. Lurija, direttore dell’istituto, già collaboratore del grande psicologo culturale Lev S. Vygotskij, le cui riflessioni sul «principio dell’organizzazione extracorticale delle funzioni mentali complesse» (le attività cognitive che si realizzano con l’ausilio di oggetti esterni, dal nodo al fazzoletto alla scrittura) avrebbero ispirato la linea terapeutica che durante la guerra Lurija decise di tentare con alcuni suoi pazienti cerebrolesi. Una sorta di ergonomia cognitiva che nel caso di Zaseckij si realizzò nella stesura pluridecennale di un’autobiografia faticosamente redatta giorno per giorno, parola per parola, pensiero per pensiero, per cercare di rimettere insieme, almeno sulla carta, i frammenti della sua coscienza polverizzata.
Pubblicato per la prima volta nel 1972 e oggi riedito con prefazione di Oliver Sacks (1987) e postfazione di Luciano Mecacci, Un mondo perduto e ritrovato (traduzione di Mario Alessandro Curletto, Adelphi, pp. 233, euro 18,00) racconta la storia di questa impresa titanica. Lo fa attraverso il montaggio di pagine tratte dal diario di Zaseckij, alternate a commenti e digressioni dell’autore-curatore, la cui principale preoccupazione è presentare il paziente nella sua unicità di persona in lotta contro i devastanti deficit che lo affliggono, anziché come caso clinico da incasellare nel bizzarro archivio delle neuropatologie.
Pur menomato nelle sue possibilità di pensiero e di azione, Zaseckij conservò intatta la forza d’animo, ed è sulla sua feroce volontà di non soccombere alla malattia che fece leva il terapeuta quando gli propose di reimparare a leggere e scrivere. Lo sforzo fu immane: non solo Zaseckij non riconosceva più le lettere e stentava a memorizzarle di nuovo, ma era anche incapace di vederne più di tre alla volta; il che, sommato ai problemi di memoria, fece sì che dopo mesi di accanito esercizio riuscisse a malapena a trattenere la traccia delle lettere appena decifrate per collegarle a quelle successive, prima che l’intera parola evaporasse nel nulla: «era come se gli occhi se ne andassero ognuno per conto proprio, portandosi via la lettera che stavo per guardare».
Con la scrittura non andava molto meglio. Come un bambino di quattro anni Zaseckij dovette imparare a tenere in mano la matita e recitare l’intero alfabeto dalla A alla Z per farsi venire in mente, uno a uno, i caratteri che gli servivano a comporre le espressioni più elementari, rileggendo la sequenza fin lì prodotta ogni volta che doveva aggiungere un simbolo ulteriore. E siccome la ferita aveva distrutto i circuiti cerebrali tramite i quali le impressioni dei diversi sensi confluiscono in rappresentazioni unitarie, le parole e i concetti – scrive Lurija – «sciamano come api» nella sua mente, senza coagularsi in immagini coerenti o in sintagmi complessi.
«Proprio nel mio linguaggio e nella mia memoria è avvenuta la scissione tra la “parola” e il suo «significato». Il ricordo di una parola e del suo significato sono come separati l’uno dall’altro da un intervallo non definito di tempo. E sono sempre quasi del tutto isolati l’uno dall’altro, cosicché nel ricordare devo in qualche modo unirli. Ma queste unioni non durano a lungo nella memoria, si dissolvono rapidamente e svaniscono…». Così Zaseckij descrive la sua afasia, ed è sorprendente la precisione con cui si esprime, quasi a smentire i contenuti del resoconto. Mentre riferisce della scissione che nella sua testa ha disgiunto i significanti dai significati, mentre racconta di sé come di un individuo a pezzi cui sono stati «strappati dei legamenti della memoria», mentre enumera le sue numerose défaillances quotidiane, vergognandosi di apparire come uno stupido, si rivela l’esatto contrario del personaggio che descrive: una persona lucida e consapevole, dotata di una notevole proprietà di linguaggio, in grado di produrre discorsi complessi e di ragionare sull’eziologia del suo male.
La scissione non riguarda dunque solo la parola e il suo significato, ma anche il narratore e il personaggio, separati da un vistoso scarto cognitivo, come se tra il tempo della storia e il tempo della narrazione fosse sopraggiunta una miracolosa guarigione e lo Zaseckij scrittore avesse ritrovato il lucchetto della memoria.
Tuttavia Zaseckij non era affatto guarito, e fin dalle prime pagine di Un mondo perduto e ritrovato si capisce che il lieto fine ventilato nel titolo non si realizzerà, o perlomeno non secondo i canoni del racconto tradizionale. «È il libro su una lotta che non ha portato alla vittoria, e su una vittoria che non ha messo fine alla lotta» – scrive Lurija – con buona pace della morfologia di Propp.
C’è però un corrispettivo del mezzo magico fiabesco che segna un punto di svolta in questa lotta perpetua senza vittoria.
Constatati gli insuccessi della terapia logopedica, un bel giorno Lurija ebbe una intuizione folgorante: posto che le regioni uditive del cervello e tutte le attività motorie del paziente erano rimaste intatte, perché non sfruttarle per cercare di ripristinare la capacità di scrivere secondo un metodo alternativo? Gli propose dunque di scrivere la parola «sangue» non lettera per lettera, bensì tutta insieme, d’impulso, senza staccare la matita dal foglio, e senza riflettere sui movimenti della mano. Zaseckij scoprì che il suo corpo ricordava ciò che la mente aveva dimenticato: la parola si riversava meccanicamente sulla carta e, sebbene faticasse a rileggerla, da quel momento gli si dischiusero possibilità di azione sino ad allora impensabili. Con la pratica imparò a scrivere interi periodi di getto, non sempre linguisticamente ineccepibili (i problemi della memoria permanevano), eppure in grado di fissare un primo abbozzo di senso sul quale lavorare per giorni, mesi e anni, attraverso estenuanti correzioni, molteplici versioni, stesure via via perfezionate, che alla lunga ricucivano quell’indispensabile trama narrativa con cui gli umani si costituiscono come soggetti.
Lotto ancora! è il titolo dell’autobiografia a cui Zaseckij affidò la sua identità, tuttora frammentata nella vita reale, ma ricomposta nelle tremila pagine che compongono il diario. È come se il protagonista scaffalasse il suo sé in una memoria esterna a cui fare costante riferimento per recuperare, oltre alla continuità della propria esistenza, l’autostima necessaria per sentirsi persona tra le altre persone.