il manifesto 10.10.15
Una disfatta lunga trent’anni
Palazzo Madama, sede del senato
di Alberto Burgio
Ci siamo finalmente. Martedì il Senato in grande spolvero voterà senza colpo ferire la propria trasformazione in una nuova Camera delle Corporazioni. Napolitano, Verdini e Barani, padri costituenti, raccoglieranno meritati onori. La legislatura vivrà una giornata palpitante. Ma se ci si potrà commuovere, dirsi sorpresi invece no, non sarebbe sensato. Che si sarebbe arrivati a questo punto si era capito già l’anno scorso, quando il ddl Boschi cominciò la navigazione tra i due rami del parlamento meno legittimo della storia repubblicana.
A rigore il governo avrebbe dovuto vedersela con l’agguerrita opposizione berlusconiana, quindi subire le condizioni poste dalle minoranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli ostacoli si rivelarono ben presto inconsistenti. Ancor prima di conquistare palazzo Chigi Renzi si era accordato con Berlusconi sulle «riforme» da varare insieme. Verdini aveva convinto il cavaliere che quel giovane democristiano era un conto in banca, la pensava allo stesso modo sulla Rinascita democratica del paese, quindi perché non sostenerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vecchia guardia rossa del Pd?
Quanto a quest’ultima, i solenni proclami della prima ora si svilirono ben presto in manovre tattiche e in mercanteggiamenti e mai nulla di serio accadde, nemmeno dopo che il patto del Nazareno era entrato in sofferenza. Non solo fiorì imponente la pratica del trasformismo interno, non soltanto il presunto carisma del nocchiero attrasse proseliti anche oltreconfine. Gli stessi generali della sedicente sinistra democratica corsero spontaneamente a Canossa nel nome della ditta o della responsabilità, del realismo o di non importa cosa.
Risultato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arrogante e strafottente. Ha irriso e lusingato, minacciato e blandito. E mentre Verdini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavorava per restituirgli il sostegno della destra, ha definitivamente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata triturare senza nemmeno accennare a una resistenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza storia, avendo tutto perduto, anche l’onore.
A qualcuno forse sarà dispiaciuto, per estetica o per umana pietas, il crudo maramaldeggiare dei colonnelli renziani all’indirizzo del vecchio segretario. Ma in politica non c’è spazio per la sensibilità e gli affetti e su Bersani, simbolo di questa Caporetto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in questione, ma la Costituzione della Repubblica, costata lacrime e sangue e migliaia di morti nella guerra contro il nazifascismo. Non è la ditta, è il paese, consegnato a un regime personale (ne sa qualcosa, buon ultimo, il sindaco della capitale, centrifugato nella macchina del fango): a un regime autoritario (dove il presidente del Consiglio sarà effettivamente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero parlamento): a un regime organico di classe, paradiso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).
Tant’è. Oggi perlomeno, a bocce ferme, il quadro è limpido ed è possibile un primo consuntivo. Ognuno trarrà le proprie conclusioni e non dubitiamo che i più, nel circo della politica politicante, ragioneranno in base al proprio tornaconto. Così i furieri dei piccoli partiti, minacciati dalla tagliola della nuova legge elettorale. Così, nei partiti maggiori, soprattutto gli eretici, i critici, i periclitanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — statisti di lungo corso, intellettuali, opinionisti illustri — che rifletteranno piuttosto, come si dice, «politicamente». Sui nuovi rapporti di forza, sugli scenari, sulle prospettive. Che strologheranno soprattutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) implicazioni del patto d’acciaio tra Renzi e Verdini, sulla sua ragion d’essere, sulle conseguenze, i costi e i benefici. Scoprendo adesso, a babbo morto, che in questo patto pulsa da sempre il cuore nero del governo e fingendo forse di allarmarsene, o invece compiacendosene per la sua laica, spregiudicata, post-ideologica configurazione. Noi invece battiamo e suggeriamo un’altra strada, solo in apparenza impolitica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tuttavia più feconda e interessante e istruttiva. Nonché la più autenticamente politica.
Se è vero, come è vero, che il disastro della cosiddetta sinistra interna del Pd — la mancata resistenza allo sfondamento renziano e al progetto padronale che lo sottende — ha prodotto conseguenze enormi ed è in larga misura la chiave per comprendere quanto sta accadendo in queste ore. Se è vero, com’è vero, che i rapporti di forza nel Pd non erano all’inizio della storia nemmeno lontanamente quelli attuali e che, in linea di principio, sarebbe stato agevole per le minoranze unite contrapporsi e imporre al presidente del Consiglio più miti consigli e una ben diversa composizione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di interrogarsi senza reticenza sulle scelte compiute in questi due anni dagli esponenti della sinistra democratica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gregario: sulle motivazioni che li hanno ispirati, di ordine culturale, psicologico, morale.
Quando la geografia politica di un paese si trasforma per effetto di un profondo sommovimento culturale come quello verificatosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le responsabilità soggettive assumono un peso preponderante. E grava più che mai l’inconsistenza culturale e morale: la subalternità ideologica e la disponibilità a porsi sul mercato. Non ci si inalberi: non serve a niente né scandalizzarsi né invocare tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stravince e domani non vorrà più nemmeno prigionieri. Si accetti dunque finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare.