venerdì 9 ottobre 2015

Corriere 9.10.15
Quella sfida ai sindacati che riguarda anche il capitale
di Dario Di Vico


A qualche mese dal suo avvicendamento il leader di Confindustria Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità con opportunità e rischi. L’opportunità è di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi; il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile.
La questione chiave è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile.
In teoria l’ultimo scorcio di una presidenza dovrebbe rappresentare per la Confindustria una stagione di ordinaria navigazione e, invece, a qualche mese dal suo avvicendamento Giorgio Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità. Che, come è scontato che sia, contiene opportunità e rischi. L’opportunità è quella di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi, il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile. A spingere il gruppo dirigente confindustriale sulla strada della discontinuità è stato, sul piano della cronaca spicciola, l’atteggiamento irriducibile della coppia Barbagallo-Camusso ma se guardiamo alla sostanza dei problemi troviamo alla radice della svolta una certa insoddisfazione verso il tran tran, cresciuta in questi anni nelle associazioni territoriali più vivaci, in parallelo alla volontà di interpretare il sentimento delle aziende-lepri. Quelle che corrono per il mondo e potrebbero maturare l’idea dell’inutilità della rappresentanza. Quindi voler leggere le ultime mosse di Squinzi con la vecchia metafora della colomba diventata falco — per di più in zona Cesarini — è riduttivo, in gioco c’è un potenziale salto di qualità della cultura associativa d’impresa. Che non può essere più quella di sette anni fa, la Grande Crisi se ha cambiato molti dei meccanismi di funzionamento dell’economia reale non poteva, infatti, lasciare inalterata la rappresentanza.
Un dirigente sindacale leggendo queste parole potrà obiettare che non ci dovrebbe essere bisogno di passare da un azzeramento seppur temporaneo del rapporto con Cgil-Cisl-Uil per costruire un associazionismo di qualità. E invece, nella situazione data, è proprio così ma non per colpa degli industriali. La verità è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile. Nelle aziende globali è l’imprenditore a farsi avanti e a sfidare Cgil-Cisl-Uil, tra i facchini della logistica sono i Cobas, nel terziario metropolitano delle partite Iva è la Rete. In questa grande trasformazione dell’economia e del lavoro sarebbe un guaio se gli industriali restassero con le mani in mano, caso mai sarebbe auspicabile che anche i sindacati dessero prova di altrettanto coraggio e volontà di innovazione. Quando conosceremo il decalogo delle regole che Squinzi ha annunciato potremo valutare con maggiore precisione quanto la Confindustria sia cosciente di ciò che le sta accadendo intorno e quali sono i percorsi che propone, è chiaro comunque che allontanare la contrattazione da Roma e portarla più vicino al mercato e alle persone è una conditio sine qua non per tentare di armonizzare rappresentanza ed economia post-crisi.
Francamente non credo, come pure è stato scritto, che Squinzi stia facendo tutto questo per portare acqua al mulino di Matteo Renzi. Penso che in Confindustria ci si sia resi conto da tempo che il premier ha messo nel mirino i corpi intermedi (anche) per ampliare la tradizionale constituency elettorale del centrosinistra e di conseguenza si sia maturata in Viale dell’Astronomia la convinzione che star fermi sarebbe, quella sì, una scelta complice. Con rappresentanze giurassiche la comunicazione guizzante del premier va, e andrebbe ancora per lungo tempo, a nozze.
Mettendo in discussione le vecchie relazioni industriali Squinzi però deve sapere che si genera un effetto-domino su altri capitoli del rapporto tra la rappresentanza e gli associati. Prendiamo, ad esempio, un tema altrettanto cruciale: la dimensione delle imprese. E’ possibile continuare a sottovalutare come questo sia uno dei passaggi ineludibili per rimettere in corsa il sistema-Italia nella competizione globale? Un’associazione meno concentrata sulla gestione dei contratti nazionali di lavoro dovrà giocoforza fornire nuovi servizi ai suoi iscritti e non potrà che individuare come prioritari di questa fase quelli destinati a favorire la crescita.
Si potrà non amare la Borsa ma l’apertura dell’azionariato, con gli strumenti più vari, è una scelta che non si può rinviare per troppo tempo. Luigi Zingales tempo fa ne parlò come «l’articolo 18 del capitale» e continua a sembrarmi una sintesi efficace.