mercoledì 7 ottobre 2015

Corriere 7.10.15
L’occupazione delle fabbriche in favore di telecamere
di Dario Di Vico


Quello di minacciare l’occupazione delle fabbriche è un topos ricorrente del sindacalismo italiano che si nutre nelle intenzioni delle grandi tradizioni di inizio Novecento. Collocato nel mondo di oggi diventa l’equivalente di un’arma nucleare da lanciare dialetticamente per sottolineare l’estrema gravità di una situazione aziendale/territoriale o di una particolare fase della vita economica. È quasi un urlo liberatorio che ha dalla sua non solo l’elemento di sfogo della tensione ma anche qualche discreta ricaduta mediatica.
   A farne uso ieri è stato il segretario della Fiom Maurizio Landini non a caso in un studio televisivo e non davanti ai cancelli di una di quelle fabbriche che a suo parere sarebbero da occupare. La circostanza – non secondaria – ha favorito la velenosa ironia del segretario della Fim, Marco Bentivogli, che ha potuto sostenere con qualche ragione come Landini ultimamente si sia specializzato soprattutto nell’occupazione di studi televisivi. Ma al di là delle baruffe sindacali è interessante indagare il retroterra culturale dell’ultimatum lanciato dal segretario della Fiom. Landini è rimasto saldo nella tradizione che vede nella forza operaia il tratto vero e identitario del sindacalismo italiano e l’atto dell’occupazione è la sfida che la rude razza pagana lancia al mercato, alle compatibilità economiche, ai processi di trasformazione delle fabbriche stesse. La Fiom non vuole fare i conti con i risultati della silenziosa ristrutturazione industriale di questi anni, tenta di esorcizzare realtà nuove come l’allungamento delle filiere di fornitura o la modifica della composizione professionale della forza lavoro. Landini ha bisogno di certezze antiche, di richiamare i simboli forti del sindacalismo d’antan: la fabbrica a dente di sega, i picchetti, il conflitto, l’ostinazione. Che poi ci creda davvero o lo faccia prevalentemente in favore di telecamera è un dubbio legittimo che però non spetta a noi sciogliere.