Corriere 26.10.15
Enrico Fermi
Lo stratega dell’equilibrio
il laboratorio esistenziale di enrico fermi in bilico tra esperimenti e ragion di stato
di Anna Meldolesi
Un gruppo di amici, un prato, una partita di calcio. Enrico cade, tradito dalla suola di una scarpa, che sul più bello si stacca. Salvare la porta tocca a lei, futura moglie e futura biografa, totalmente digiuna di pallone. Si apre così Atoms in the family, la storia della vita del grande fisico scritta da Laura Fermi e ripubblicata di recente in versione kindle dalla University of Chicago Press. Diverte ricordare questo aneddoto in cui il futuro premio Nobel, detto «il Papa» per la sua infallibilità, perde l’equilibrio. Anche perché Genova ospita il Festival della scienza dedicato al tema dell’equilibrio e tra le iniziative c’è la mostra su Enrico, curata dal Centro Fermi e dalla Società italiana di fisica. È l’occasione per provare a rileggere in questa chiave la vita del genio.
Un felice equilibrio di personalità e di talenti è quello che si crea negli anni ‘30 all’istituto di via Panisperna per volere del direttore Orso Mario Corbino, che sogna di portare Roma all’avanguardia della ricerca internazionale. Ci passano Fermi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana, Bruno Pontecorvo. Enrico è il più solidamente concentrato sulla fisica. «Non era noioso, ma la vastità delle sue conoscenze in questo campo andava a scapito degli altri interessi, politica inclusa», ci dice Giovanni Battimelli, storico della «Sapienza». Gli altri avevano un’estrazione borghese, erano stati educati alle belle letture, mentre Enrico aveva studiato testi scientifici racimolati qua e là. Abitudinario, quasi imperturbabile, assertivo. Primo per inclinazione naturale, mai arrogante né falsamente modesto. Rasetti invece era eccentrico, brillante e poliedrico. È con lui che Fermi trascorre il periodo goliardico degli studi a Pisa, mantenendo per diversi anni un rapporto umano e scientifico privilegiato. Il 1934 è l’unico anno in cui i ragazzi di via Panisperna lavorano insieme come una squadra, poi iniziano a disperdersi e la relazione più importante diventa quella tra Fermi e Amaldi. Edoardo è l’unico che, allo scoppio della guerra, resta nella capitale caricandosi sulle giovani spalle il compito di far crescere la fisica italiana.
Un altro bilanciamento irripetibile è quello che Fermi esprime fra teoria ed esperimenti. «Se Majorana è l’archetipo del teorico puro, Fermi è un teorico fenomenologo, desideroso di mettere le mani sulle cose», dice Battimelli. L’attività sperimentale con i neutroni gli porta il Nobel, ma nello stesso periodo elabora la teoria sul decadimento beta che forse è il suo più grande contributo. All’interno della fisica fondamentale lascia tracce ovunque, se si contano i fenomeni e le grandezze che portano il suo nome si arriva al centinaio. «Vale la pena ricordare che è diventato così bravo in Italia, mentre gli altri italiani che sono arrivati al Nobel per la fisica l’hanno conquistato all’estero». Il premio del 1938 non suscita entusiasmo in patria, perché Fermi non è un fervente fascista, non saluta il re di Svezia col braccio alzato ed è in procinto di emigrare in America. Ad affrettare la partenza sono le leggi razziali, anche perché Laura è ebrea. «Ma sarebbe andato via lo stesso. Per restare in vetta aveva bisogno di apparecchiature costose come un ciclotrone che il regime non voleva finanziare», sostiene lo storico. Arriviamo così al terzo equilibrio, quello tra ragioni di stato e ragioni della scienza. Fermi è stato definito il genio obbediente, è una descrizione corretta? «Era più obbediente al suo essere fisico che agli ordini». Ha avuto un rapporto di collaborazione completa con il governo americano ma ha anche saputo dire di no, dichiarandosi contrario allo sviluppo della bomba H.
Le ricerche iniziate a Roma e proseguite oltreoceano hanno inaugurato l’era dell’atomo, con la prima reazione controllata nello stadio di Chicago nel 1942, il primo test atomico nel deserto del New Mexico nel luglio del 1945, le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki il mese dopo. Di fronte alla minaccia nazista Fermi riteneva giusto contribuire al progetto Manhattan , che si dice abbia fatto perdere alla fisica la sua innocenza. Ha mai avuto ripensamenti? «Diversamente da altri scienziati coinvolti ha sempre tenuto i suoi dubbi per sé».