mercoledì 21 ottobre 2015

Corriere 21.10.15
Satiro, quasi filosofo, forse santo E allora: prega per noi, o Socrate
di Pietro Citati


L’ eccellente libro che Maria Michela Sassi ha appena scritto su Socrate ( Indagine su Socrate , Einaudi, pagine 246, e 23) ha inizio con le parole che Alcibiade gli dedica nel Simposio di Platone. Alcibiade ha tradito sia Socrate e il suo insegnamento sia Atene. Ma dice le cose essenziali su di lui. «Quello che è stato, nella sua stranezza, quest’uomo qui, sia lui che i suoi discorsi, non si potrebbe trovare neppure uno che gli si avvicini, nemmeno a cercarlo, né fra i contemporanei né fra gli antichi, a meno che non lo si assomigli a quegli esseri che dicevo io, a nessun essere umano quindi, ma ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi».
Socrate non assomiglia a nessuno, soprattutto a nessuno dei filosofi e degli scrittori del mondo antico: è strano, stravagante, «privo di luogo», non classificabile; una pura anomalia nell’Atene del suo tempo e in ogni tempo. Vedete la sua figura: l’epica omerica aveva insegnato che l’uomo è, o deve essere, «bello e buono»; mentre Socrate, come dice Erasmo, aveva una faccia da bifolco, un’aria bovina, una pancia prominente, il naso schiacciato e pieno di moccio; e usava camminare a piedi nudi sul ghiaccio e con un mantello leggero anche d’inverno. Sembrava un buffone tardo e ottuso. Ad Atene, i filosofi frequentavano i filosofi: lui, invece, amava la totalità dell’esistenza: si intratteneva con ciabattini, lavandai, cuochi, artigiani di ogni specie; li interrogava e li trasferiva, ciò che era assolutamente inusuale, nel cuore del discorso filosofico.
Alcibiade insisteva: «Io dico che Socrate è similissimo a quei sileni che si trovano nelle botteghe degli scultori di erme, quelle statue che gli artigiani modellano con in mano zampogne e flauto e che, poi, aperti in due, mostrano all’interno di possedere immagini degli dei». Socrate portava dunque in sé stesso immagini sacre di satiri e sileni, che appartenevano, nel culto di Dioniso, sia al mondo dei misteri sia a quello della sfrenatezza animale. Chi lo ascoltava, si fermava, e dai suoi occhi sgorgavano lacrime, come quando venivano invasati dalla possessione dei Coribanti, sacerdoti di Cibele e officianti di riti catartici. Dai suoi discorsi emanava qualcosa come un fluido magico, che induceva nei giovani una condizione di dipendenza fisica: essi provavano vergogna, fuggendo da lui come servi.
Non soltanto i sileni, i satiri e i Coribanti testimoniavano per Socrate: ma anche Apollo. Il suo amico Cherefonte si recò a Delfi per domandargli se vi fosse qualcuno superiore a Socrate, e la Pizia aveva risposto che non c’era nessuno. Socrate era rimasto stupito, commentando che lui non era sapiente né tanto né poco. Eppure, nei suoi ultimi giorni di prigionia e di vita, aveva immaginato un inno ad Apollo: l’unica cosa (insieme alla traduzione in versi dei racconti di Esopo) che egli avesse composto.
Come dice l’ Apologia di Socrate , in lui c’era qualcosa di divino e di demonico. Camminava per strada, e all’improvviso si fermava, perché era assorbito in una trance meditativa: una voce gli parlava all’orecchio, e di solito non lo induceva a fare qualcosa, ma lo distoglieva dal fare qualcosa. Questa voce non sostituiva il ragionamento, ma era una specie di aggiunta divina al ragionamento umano, che Socrate amava così profondamente. Così, invaso dalla voce degli dei, Socrate entrava insensibilmente nel mondo divino. Ma questo mondo non gli portava nessuna altra conoscenza. Se il suo allievo Platone ricercava nel mito l’esempio di un persuasivo discorso filosofico, Socrate non balzava nel mito. E, a quanto pare, sempre al contrario di Platone, non credeva nell’immortalità dell’anima.
Come sottolinea Maria Sassi, egli amava profondamente la vita: il suo insegnamento non mirava a cancellare o a superare la vita in un altro cosmo, ma a fare buon uso della esistenza quotidiana e di tutte le sue immagini e figure. Sapeva di possedere «una certa sapienza umana», ben diversa da quella degli dei, o degli uomini che, in terra, immaginavano di essere come gli dei: i Sofisti, i politici, i poeti. Cicerone disse che Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo e a collocarla nelle città e nelle case, costringendola a indagare la vita e i costumi, il bene e il male. «Il più grande bene dato all’uomo — dice l’ Apologia di Socrate — è proprio questa possibilità di ragionare ogni giorno sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere, ed esaminare me stesso e gli altri. Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta».
Questa ricerca urtava contro un fatto: Socrate non sapeva: sapeva di non sapere, mentre voleva conoscere le «cose in sé». Come fare, dunque, per arrivare alla conoscenza? Egli adottava la condizione più difficile: quella della incessante ironia. Socrate si prendeva gioco di tutte le cose ma soprattutto di sé stesso. Alternava la serietà e la leggerezza, il tragico e il comico. Interrogava, faceva nascere dubbi, faceva partorire pensieri negli esseri umani. Come disse Montaigne, suo allievo supremo, non possedeva altra scienza tranne quella di contraddire: non concludeva mai, non dava mai una risposta definitiva: continuava a interrogare senza la minima presunzione; in questo modo lui — il sileno, il satiro, il coribante — incantava tutti gli uomini pieni di dubbi. Forse il suo, diceva Kierkegaard era «un gioco infinitamente leggero col nulla», che non arretrava mai di fronte a niente, tanto meno alla morte.
Secondo gli Atti degli Apostoli , Pietro disse al Sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini», riecheggiando la frase che Socrate aveva rivolto alla giuria di Atene. Tra i primi autori cristiani, specialmente Giustino Martire sviluppò l’analogia tra Socrate e Cristo. Come Cristo, Socrate era vissuto secondo il logos , la ragione divina. Mediante il logos aveva guidato i suoi contemporanei a riconoscere la verità di Cristo, fino a dare la vita. Così, almeno parzialmente, la filosofia pagana attinse alla conoscenza del vero Dio, e la morte a cui Socrate era andato serenamente incontro ne costituì la più alta confessione. Secoli più tardi, il neoplatonismo cristiano, Coluccio Salutati e Marsilio Ficino, aveva riconosciuto in lui «il capostipite dei nostri martiri». Erasmo da Rotterdam esclamò: « Sancte Socrates, ora pro nobis !». Durante la sua prigionia nella torre di Vincennes, Diderot si immerse così profondamente nell’atmosfera socratica da tradurre a memoria l’ Apologia .
Il libro di Maria Michela Sassi si conclude con una scoperta. Secondo Critone, Socrate lo invitò, con le sue ultime parole, a sacrificare un gallo ad Asclepio, dio della medicina. Questa offerta implicava il ringraziamento per una guarigione avvenuta: la guarigione — il senso non può essere diverso — dalla vita. Ciò suppone che la vita sia una malattia. Ma Socrate non può mai avere supposto, o immaginato, che la vita sia una malattia. Come scrive Georges Dumézil, «tutto il suo insegnamento è diretto a un buon uso della vita». Dunque Socrate non ha mai detto queste parole: non ha mai chiesto a Critone di sacrificare per lui un gallo ad Asclepio.