giovedì 1 ottobre 2015

Corriere 1.10.15
Nel nuovo libro di Bergoglio il senso del Giubileo
«Così si deve orientare l’amore dei cristiani»
La misericordia secondo Francesco
di Jorge Maria Bergoglio


La misericordia, il male, il bene, la cura, l’abbraccio, l’empatia, la consolazione. Sono i capitoli de «La misericordia è una carezza» (Rizzoli, pp. 288, 18 euro), il libro a cura di padre Antonio Spadaro, direttore di «La Civiltà Cattolica», che raccoglie gli scritti su questi temi di Jorge Mario Bergoglio prima dell’ascensione al soglio pontificio e le trascrizioni delle sue omelie una volta diventato Papa, di cui pubblichiamo un brano. Il volume spiega come vivere il Giubileo nella realtà di ogni giorno. Un invito a usare la misericordia e il perdono per far germogliare la vita e, soprattutto, un viaggio tra le parole e le sfide in vista dell’Anno giubilare. «La misericordia è la parola chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Ed è sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli». Con queste parole il Papa aveva motivato la decisione di indire il giubileo straordinario della misericordia che si apre l’8 dicembre. Non una data casuale: la festa dell’Immacolata Concezione di Maria, coincide con il 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. Scrive Francesco nella bolla d’indizione del Giubileo: «La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo».

Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
«Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”» (Mt 5,1-12). [...]
Il Signore ha pronunciato le beatitudini per tutti e, se è vero che esse definiscono con chiarezza le nostre zone d’ombra e di peccato, è altrettanto vero che iniziano con una benedizione e terminano con una promessa consolatoria. Dio ha radunato il suo popolo intorno alla verità, al bene e alla bellezza proclamati dalle beatitudini; e noi oggi, ascoltandole, non dobbiamo applicarle agli altri, ma accoglierle tutte, nella loro interezza, dentro di noi, ciascuno con cuore semplice e aperto, permettendo alla Parola di Dio di avvicinarci gli uni agli altri ancora una volta, sempre nella speranza di costruire la nazione che dobbiamo a noi stessi. […]
Oggi ci sentiamo chiamati — tutti, senza eccezioni — a confrontarci con questa testimonianza che sgorga dal sentimento di intimità con Gesù. Dobbiamo rispondere a una vocazione: costruire la gioia, l’uno per l’altro, è quello che ci porteremo dietro da questo mondo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino percorrendo il quale noi esseri umani possiamo pervenire alla felicità più autenticamente umana e divina. Ci fornisce uno specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero della serenità, della pace e del significato, in cui possiamo godere della nostra esistenza insieme. La beatitudine è semplice e, proprio per questo, anche esigente: è uno specchio che non mente. Rifugge dallo scetticismo che non si interessa davvero alle cose e dalla bieca ipocrisia. [...]
Il Signore comincia parlando della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Nella parte più umile della nostra popolazione c’è molto di questa beatitudine: è quella di coloro che conoscono la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso i propri cari; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano nel nostro popolo quella grandezza umile di saper chiedere e offrire perdono, rinunciando all’odio e alla violenza. È la ricchezza di ogni persona piccola e povera, la cui fragilità e vulnerabilità le permettono di conoscere l’aiuto, la fiducia e l’amicizia sincera che relativizza le distanze. «Di essi» dice Gesù «è il regno dei cieli» (Mt 5,3); solo imitando la misericordia di Dio si può arrivare a possedere un’anima grande, capace di abbracciare e comprendere, cioè di ottenere misericordia.
Abbiamo bisogno dell’amicizia sociale che coltivano i poveri e i piccoli, e che si realizza solo quando si dà completamente agli altri.
Che Dio ci protegga dalla disgrazia di una permanente insoddisfazione, dall’occultamento del vuoto e dalla miseria interiore favoriti da surrogati di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica, al contrario, è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza; elimina ogni finzione volta solo a impressionare; non richiede propaganda per mostrare ciò che fa, né cerca di imporsi con la forza. Il suo potere e la sua autorità nascono dal richiamo alla fiducia, non dalla manipolazione, dalla prepotenza o dai tentativi di intimidire gli altri.
Scommettere sull’amore
Beati sono anche i cuori che si «affliggono», quelli che piangono per la tensione lacerante tra il desiderio della pienezza e della pace che non riescono a raggiungere, e un mondo che punta sulla morte. Beati coloro che piangono per questo, e intanto scommettono sull’amore, benché si trovino a vivere il dolore dell’impossibilità o dell’impotenza. Quelle lacrime trasformeranno l’attesa in lavoro in favore dei più bisognosi, per realizzare una semina, affinché le generazioni future ne possano raccogliere i frutti, e faranno della speranza una solidarietà e un impegno concreti per il futuro.
Beati coloro, dunque, che non giocano con il destino degli altri, che sono disposti ad affrontare la sfida di costruire senza pretendere di essere protagonisti dei risultati, perché il tempo non li spaventa. Felici quanti non si arrendono all’indolenza di vivere l’istante senza preoccuparsi del perché o dell’opinione degli altri, ma che nel lungo periodo coltivano sempre ciò che è nobile, eccellente, saggio, perché la loro fede va oltre ciò che sperimentano e ottengono nell’immediato.
La disgrazia, al contrario, consiste nel non accettare il dolore del tempo, negarsi alla transitorietà, mostrarsi incapaci di riconoscersi persone qualunque, semplici anelli della lunga catena di sforzi continui che sono resi necessari dal processo di costruzione di una nazione. Forse è questa la causa di tante frustrazioni e fallimenti, che ci hanno portato a vivere in bilico, in costante agitazione. Abituati come siamo a contrapporre ed escludere, quando sopraggiungono le crisi o le emergenze, i diritti perdono terreno, il sistema si indebolisce e, indirettamente, finisce per delegittimarsi. A quel punto, le conseguenze peggiori si ripercuotono sui più poveri, e diventa più facile incontrare opportunisti e arrivisti.