Corriere 14.10.15
Le conseguenze dello scrivere
L’azero Akram Aylisli e il libro sul conflitto con gli armeni: da «autore del popolo» a «vergogna»di di di Gian Antonio Stella
«Questi arrivano e uccidono, poi arrivano quelli e uccidono. Se si accendesse almeno una candela per ogni armeno ucciso violentemente, la luce di queste candele sarebbe più viva di quella della luna». Sono bastate frasi così messe in bocca a uno dei protagonisti del libro Sogni di pietra , a stravolgere la vita di Akram Aylisli. Era uno dei più celebrati scrittori azeri: di colpo si è ritrovato a essere un appestato. Il più odiato dell’Azerbaigian. (...)
Lo sapeva, Akram Najaf oglu Naibov, noto come Akram Aylisli (pseudonimo che rende omaggio al paese natio, Ajlis, all’estremità sud dell’ exclave azera del Naxcivan, quasi al confine con l’Iran e l’Armenia) che molti suoi compatrioti non avrebbero capito il suo sforzo di tender una mano agli armeni. Non per altro, dopo aver finito il libro nel 2007, aveva atteso anni, prima di pubblicarlo.
Si decise nell’autunno del 2012. In estate l’estradizione di Ramil Safarov, un ufficiale originario del Nagorno-Karabakh che otto anni prima, durante un master della Nato a Budapest, aveva ucciso un pari grado armeno, si era trasformata in una inquietante manifestazione di sciovinismo azero. Non solo l’assassino, che aveva decapitato nel sonno Gurgen Margaryan con sedici colpi di mannaia (...) era stato accolto all’aeroporto da una folla entusiasta, ma era stato subito graziato (a dispetto delle solenni assicurazioni contrarie: doveva scontare l’ergastolo), promosso, premiato col regalo di una casa e otto anni di stipendi arretrati. Una sfida al mondo intero.
Fu allora che Akram Aylisli si decise: «Ero sotto choc. Speravo di risparmiare alla mia gente l’immagine di un popolo di tagliagole». E scelse di pubblicare Daş yuxular ( Sogni di pietra , appunto) non in patria ma sulla rivista letteraria «Druzba Narodov» («Amicizia tra i popoli») di Mosca. (...) Giusto il tempo che il libro finisse nelle mani di qualche compatriota nazionalista e diede fuoco alle polemiche come una torcia in una polveriera.
Tutto parte, nel romanzo, dal ricovero in fin di vita all’ospedale di Baku di un celebre attore di teatro, Sadaj Sadygly, pestato a sangue perché aveva osato intromettersi in difesa di un armeno massacrato a pugni e calci da un gruppo di ragazzi azeri rifugiati nella capitale dell’Azerbaigian dopo esser stati costretti a lasciare le loro case in Armenia a causa di conflitti etnici sfociati nella guerra 1992-94. E da lì, attraverso le vicende, i dialoghi e i ricordi di quattro personaggi, scivola giù tutta la storia. (...)
Quello che ne viene fuori è il dolore a cavallo fra due tragedie. I pogrom contro gli armeni nei primi due decenni del Novecento (che ancora oggi la Turchia rifiuta di chiamare genocidio) e la guerra appunto degli anni Novanta per il controllo del Nagorno-Karabakh, la regione a larghissima maggioranza armena che al momento della disintegrazione dell’Urss (...) rifiutò di venire inglobata nel nuovo Azerbaigian indipendente al quale era stata aggregata quando i confini interni sovietici erano poco più che fili di seta amministrativi.
Cosa siano state le due tragedie è tema degli storici. Ma anche della cronaca di oggi. Oltre vent’anni dopo la fine della guerra per il Nagorno-Karabakh, infatti, manca ancora un accordo per una composizione dei contrasti tra le due nazioni e tra i due popoli, che spesso appaiono tuttora insanabili. Chi aveva ragione, chi aveva torto? Difficile fissare un confine netto. Come in ogni conflitto lo scontro degli anni Novanta vide brutalità di una ferocia inaccettabile, rinfacciate dai rispettivi nazionalisti, da una parte e dall’altra.
Sogni di pietra , prima tappa di una trilogia di cui null’altro si sa, ha un merito. Tenta di capire e di spiegare le ragioni dell’«altro». Di più: cerca di riconoscere, con onestà, i torti della propria parte. (...) A costo di non esser capito dai custodi del nazionalismo più aggressivo, ottuso e muscolare. (...)
Anche Ilham Aliyev, il presidente dell’Azerbaigian che nel 2003 ereditò la carica dal padre Heydar Aliyev, salito al potere nel lontano 1969 come segretario del Partito comunista e sopravvissuto riciclandosi al crollo del comunismo e alle denunce della «Pravda» che negli anni di Gorbaciov lo accusò di corruzione, è come Akram Aylisli originario della exclave azera di Naxcivan. Ma la pensa, sugli armeni, esattamente all’opposto.
Va da sé che, quando deflagrò lo scandalo per Sogni di pietra , il capo dello Stato azero non ci pensò due volte. E ai primi di febbraio del 2013 firmò un decreto per togliere allo scrittore, di colpo rinnegato, il titolo di «Autore del Popolo».
Contemporaneamente Aylisli fu «derubato» della pensione ed espulso dall’Unione degli scrittori azeri. La moglie che dirigeva da trent’anni una biblioteca per bambini e il figlio che lavorava alla locale agenzia delle entrate furono licenziati. (...)
Roghi dei libri in piazza. Manifestazioni di folle urlanti sotto casa. Scritte sui muri: «Aylisli, armeno, vattene in Armenia». Un parlamentare, Nizami Jafarov, ha suggerito di togliergli la cittadinanza: «Lasciamolo andare a Yerevan e prestare servizio là in qualche chiesa». Un altro, Siyavush Novruzov, ha sibilato ironico: «Gli armeni dovrebbero erigere un monumento ad Akram Aylisli». Altri ancora hanno proposto di vietare la pubblicazione delle sue opere. E solo le proteste diplomatiche internazionali hanno spinto Hafiz Hajiyev, candidato alla presidenza del partito Moderno Musavat, a ritirare quella taglia di quasi tredicimila dollari a chi gli avesse portato un orecchio dello scrittore reo d’aver «insultato quattro milioni e mezzo di cittadini dell’Azerbaigian occidentale dipingendoli come dei selvaggi» e con loro «l’intera nazione turca» alla quale gli azeri si sentono indissolubilmente legati. (...)
Non è mancata la voce di Allahshukur Pashazadeh, il Gran Muftì. Che ancora oggi ricorda sul suo sito ufficiale come lo scrittore sia stato ufficialmente «dichiarato apostata».
Una condanna che, in un paese musulmano un po’ meno secolarizzato di quanto sia l’Azerbaijan, sarebbe letta come una fatwa. Una condanna a morte. (...)
Nonostante tutto, Akram Aylisli ha scelto di restare a vivere a Baku. In quella che, malgrado gli attacchi, continua a considerare la sua patria. Per non darla vinta a chi, anche a prescindere dalle ragioni e dai torti, rifiuta la libertà di espressione. Nella speranza che anche questo libro, finalmente tradotto in italiano, possa aiutare a riallacciare il dialogo.