Corriere 10.10.15
A che cosa servono le basi americane in Italia
risponde Sergio Romano
Sul giornale Formiche.Net , il generale Leonardo Tricarico prende le distanze dall’attacco americano all’ospedale di Medici Senza Frontiere, sostenendo che i termini «Nato» e «Usa» siano con troppa disinvoltura usati dai media come sinonimi e aggiungendo, a sostegno delle proprie tesi, che in Italia non vi sarebbero, in punta di diritto, basi Usa o Nato, ma solo basi italiane concesse in uso secondo specifici accordi. Persino le regole d’ingaggio Nato sarebbero diverse da quelle americane in termini di sforzi per evitare i tristemente famosi danni collaterali. È così, oppure si tratta soltanto di un tentativo di smarcarsi da un alleato nel cui comportamento ci riconosciamo sempre meno? La risposta credo possa interessare molti lettori, specie ora che c’è la possibilità di una partenza dei nostri Tornado per attaccare l’Isis.
Francesca Garello
Cara Signora,
Le basi americane in Italia rappresentano un duplice problema. In primo luogo sono regolate da accordi largamente superati dalle condizioni e circostanze in cui stanno operando dopo la fine della Guerra fredda. Gli accordi garantiscono la continuità della sovranità italiana, ma dubito che il Dipartimento della Difesa, a Washington, presti a quelle intese una particolare attenzione. Nell’articolo che il generale Tricarico ha scritto per Formiche ho letto: «Quando il Prowler statunitense tranciò nel 1998 la funivia del Cermis causando 20 morti, all’equipaggio fu concesso di avvalersi dello status Nato e dei relativi privilegi, quando invece la loro condizione legale era quella di aviatori statunitensi di passaggio in Italia. In altre parole, il nostro Paese avrebbe potuto rivendicare il diritto di processarli in un nostro tribunale. Quell’equipaggio infatti, pur di potere operare con le regole più semplici che si applicano all’interno della Nato, inserì il proprio volo, con l’inganno, nell’elenco dei voli giornalieri (quelli sì Nato!) del gruppo Usaf dislocato permanentemente sulla base di Aviano».
L’episodio del Cermis dimostra, insieme ad altri, che gli accordi sono meno importanti del peso dominante degli Stati Uniti nell’ambito dell’Alleanza.
Il secondo problema è quello della funzione che le basi hanno assunto per la politica estera americana. Quando furono create, all’inizio degli anni Cinquanta, vi era per i tutti membri della Nato uno stesso potenziale nemico; e le circostanze potevano giustificare qualche eccezione alla regola. Oggi, a meno che non si vogliano risvegliare le passioni della Guerra fredda, il nemico comune, dopo l’intervento dell’Isis in Iraq e in Siria, non è quello di allora. Ma gli Stati Uniti continuano a usare le loro basi, soprattutto nel Mediterraneo, come se i loro obiettivi fossero necessariamente quelli dell’Alleanza. Lo fecero contro la Libia di Gheddafi negli anni Ottanta, ma vi fu allora il caso in cui il governo Craxi impedì agli americani di usare una base in Sicilia (Sigonella) per impadronirsi di un commando palestinese. Il commando aveva dirottato la nave «Achille Lauro» e Craxi, per liberarla, aveva negoziato con i buoni uffici del leader palestinese Yasser Arafat e si era impegnato a permettere che il commando partisse per la Tunisia.
È giunta l’ora di rivedere gli accordi sulle basi. Non credo che l’Italia possa continuare a ospitare sul proprio territorio senza qualche necessario aggiornamento alcune enclave militari americane, strumento di una politica che non è sempre quella del suo governo.