mercoledì 2 settembre 2015

Repubblica 2.9.15
Renzi sfida i dissidenti “Chi ferma le riforme blocca anche la ripresa”
Il premier: “Se vince il no, si vota e addio alla crescita”
Il governatore Rossi: “Io segretario Pd? Perchè no?
di Francesco Bei


Domani possibile incontro tra Bersani e il ministro Boschi alla Festa dell’Unità milanese
A Palazzo Chigi sono convinti che i favorevoli non saranno lontani da quota 185
Il capo del governo scommette sull’idea che non tutti i 29 della sinistra dem saranno contrari
Marianna Madia ieri alla festa nazionale dell’Unità, a Milano: “Sulle riforme andiamo avanti senza fermarci” ha detto il ministro della Funzione pubblica parlando dei decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione approvata prima della pausa estiva.

ROMA. «Con i dati dell’Istat che certificano la crescita dei posti di lavoro voglio vedere chi si assumerà la responsabilità di mandare tutto all’aria e bloccare la ripresa». Gasato per la buona notizia sull’occupazione, dopo il disastro comunicativo del ministero del Lavoro, Matteo Renzi guarda alla sfida che si aprirà al Senato la prossima settimana, quella sul disegno di legge costituzionale. Lo spettro delle elezioni anticipate resta sullo sfondo, anche se più come spauracchio per intimidire la fronda interna al partito. E intanto il report, aggiornato giorno dopo giorno da Luca Lotti, quello con i nomi dei senatori su cui contare, è finalmente arrivato sulla scrivania del premier. Che compulsando la lunga serie di volti che lo compongono si è soffermato sul dato finale: «Sulla carta ne abbiamo 185. Anche se scomputiamo la minoranza ce la possiamo fare».
Tanti infatti sono i voti che la maggioranza, in teoria, potrebbe raggranellare sul ddl Boschi. Una quota stratosferica, che significativamente considera nella colonna dei “Si” anche i voti di quei 25 (o 29) senatori della minoranza dem che non sono mai scesi dalle barricate. Oltre agli apporti dei fuoriusciuti forzisti, grillini e Gal. È questa la quota di partenza dal quale inizare a sottrarre per arrivare a una cifra realistica. Ed è proprio quel numeretto, scritto in fondo al report, all’origine della spavalderia che il premier mostra con chiunque lo interroghi sul tema: «I voti li abbiamo comunque, ma certo sarebbe meglio se la minoranza del partito guardasse il merito e alla fine considerasse quanto possiamo offrire».
Centottantacinque voti, meno i venticinque dissidenti del Pd, e si arriva a centosessanta. Solo un voto in meno della maggioranza assoluta necessaria nella terza votazione. Se davvero le cose andassero così per il capo del governo sarebbe una prova di forza. Specie tenuto conto che in questo passaggio parlamentare in realtà i margini sono molto più ampi, dato che basta la maggioranza semplice dei presenti. Uno dei capigruppo dell’opposizione, che ha potuto scorrere in via riservata il rapporto-Lotti, ammette che «i nomi sono quelli lì. Anche se considera nel mucchio di 185 pure i dissidenti dem, gli altri ci sono tutti». Tra i 44 di Forza Italia ci sarebbero poi alcuni incerti. Ieri l’Adnkronos faceva i nomi di alcuni senatori berlusconiani disponibili a considerare un voto positivo sulle riforme: Francesco Nitto Palma, che da tempo non partecipa più alle riunioni di partito e non nasconde il profondo malessere nei confronti della gestione di Fi, poi Domenico Auricchio, Franco Cardiello, Sante Zuffada e Riccardo Villari.
Il messaggio di Renzi è dunque chiaro: se voglio posso fare a meno di voi. Della minoranza Pd e di Berlusconi. Una posizione di forza in vista dell’apertura di una eventuale trattativa.
Qualcosa in effetti inizia a muoversi. E anche la fotografia della minoranza, avvicinandosi, presenta delle sfumature tra una frazione di irriducibili - da Mucchetti a Mineo- e una parte maggioritaria più aperta a compromessi. Claudio Martini, che fa da ponte fra le varie anime della minoranza, è molto prudente: «Il documento dei 25 non è stato scritto per rompere ma per discutere e ragionare insieme. Speriamo quindi che si apra davvero uno spazio per il ragionamento». Un altro peso massimo della minoranza come il presidente della Toscana Enrico Rossi, pur lanciando la sua candidatura come anti-Renzi in vista del congresso («perché no?»), alla Stampa due giorni fa ha rivolto un appello all’area bersaniana: «Un Senato a elezione diretta non è più un Senato dei territori!».
Insomma, le basi per un compromesso esistono. E in questa settimana, fino alla seduta della commissione affari costituzionali di martedì prossimo, si capirà quanto sono grandi i margini per un’eventuale ricucitura. I bene informati raccomandano di non perdere l’appuntamento di domani alla festa dell’Unità a Milano. Quando il destino ha previsto in calendario per la stessa serata un dibattito con Pier Luigi Bersani e un altro con Maria Elena Boschi. In teoria, dietro il tendone, i due dovrebbero incrociarsi. E forse provare a gettare un primo seme per arrivare a un’intesa che non faccia perdere la faccia a nessuno. Proprio la Boschi è considerata la più tetragona tra i renziani, la più affezionata a mantenere il ddl che porta il suo nome così com’è. Se un’apertura dovesse arrivare da lei, sarebbe il segnale che anche Renzi è disposto a cedere qualcosa.