lunedì 28 settembre 2015

Repubblica 28.9.15
“Non fatemi morire qui” La voce di Ali dal carcere
Il giovane saudita condannato alla decapitazione affida al fratello il suo appello al mondo
di Francesca Caferri


Il sorriso più grande lo ha riservato a sua madre, quando ha cercato di parlargli di quello che potrebbe accadergli da un giorno all’altro: «Ho fede in Dio, non mi piego. Non voglio morire qui: e sono e resto un ottimista». Poi ha cercato di tranquillizzare il padre e la sorella, anche loro andati a trovarlo in prigione dopo lunghe settimane di attesa: «Non dovete preoccuparvi. Io sto bene: sono forte. So perfettamente quello che è stato deciso per me: ma non mi lascio abbattere. Adesso tocca a voi essere forti». Poche altre battute prima che, dopo dieci minuti scarsi, una guardia riconducesse Ali al Nimr nella sua cella di prigione, facendo di nuovo precipitare nel buio il destino di questo ragazzo di 20 anni la cui storia ha mobilitato migliaia di persone in tutto il mondo.
I fatti: Ali al Nimr è un cittadino saudita arrestato nel 2012 nella Provincia Orientale, quella più ricca di petrolio, ma anche di tensioni, del Paese. All’epoca del suo fermo l’atmosfera nella zona era tesissima: sotto la spinta della Primavera araba – e, secondo Riad – dell’incoraggiamento iraniano i cittadini di fede sciita, che sono la maggioranza nella regione ma una minoranza nel Regno avevano dato vita a manifestazioni per chiedere un rispetto maggiore dei loro diritti. Il ministero dell’Interno, guidato dall’attuale erede al trono Mohammed Bin Nayef, aveva risposto con durezza. Come dozzine di altre persone in quei giorni, Ali al Nimr è stato arrestato. A lui però è toccata una sentenza durissima: riconosciuto colpevole di possedere illegalmente un’arma e di aver attaccato le forze di sicurezza, è stato condannato a morte nel maggio del 2014. La sentenza è stata confermata qualche settimana fa e potrebbe essere eseguita in qualunque momento: ad Ali sarà tagliata la testa e poi il suo cadavere sarà crocefisso in pubblico.
«Speravamo che almeno questo non lo sapesse. Ma non è così: le guardie gli hanno dato i giornali». Baqer è il fratello maggiore di Ali, quello che la famiglia ha eletto a portavoce. Dall’America, dove vive per motivi di studio, racconta i dettagli dell’incontro di due giorni fa. “Lo hanno visto bene – spiega – per quanto possa star bene uno che è in carcere da tre anni. Non aveva più i segni delle botte. Adesso per lui la tortura è un’altra, è l’attesa di una fine orribile”.
Baqer descrive il fratello come un ragazzo tranquillo, che dà poca confidenza agli altri: tutt’altra storia rispetto all’agitatore sociale della versione ufficiale. Anche sull’arresto ha un’altra storia da raccontare: «Lo hanno fermato durante una delle tante retate casuali: era in moto quando una macchina della polizia lo ha bloccato». Soltanto quando le autorità hanno capito chi era è scattata l’accusa di sedizione: Ali è infatti il nipote di un importante religioso sciita, Nimr Baqr al Nim, anch’egli condannato a morte. Per Baqer le accuse contro il fratello sono legate esclusivamente a questo motivo: «Aveva preso parte alle proteste, come centinaia di altre persone. Ma non esistono altre prove contro di lui: e nessuno ha subito una condanna come la sua». Baqer racconta del loro ultimo incontro, l’estate scorsa, prima che la sentenza di morte fosse confermata: «Aveva ancora i lividi, mi ha raccontato delle torture con cui gli è stata estorta la confessione. Mi ha detto di non preoccuparmi: lui è così».
Parola per parola la voce del ragazzo si fa più cupa: non bastano a rassicurarlo le prese di posizione di Francois Hollande, Jeremy Corbin e del dipartimento di Stato americano. Gli fanno poco effetto gli appelli di Amnesty International, Human Rights Watch e di organizzazioni come il Gruppo saudita-europeo per i diritti umani. «Il tempo stringe - dice - posso solo sperare che questi sforzi servano».