venerdì 18 settembre 2015

Repubblica 18.9.15
Cosa dice alla sinistra la vittoria di Corbyn
di Piero Ignazi


L’ELEZIONE di Jeremy Corbyn alla guida del Labour party segna uno spartiacque nella politica britannica ed europea perché riporta in primo piano valori e riferimenti sociali sottovalutati e persino rimossi. All’inizio degli anni Duemila la sinistra era dominante in Europa occidentale. Governava 14 dei 15 paesi membri dell’Unione europea. Oggi è in ritirata quasi ovunque, contestata da movimenti più radicali e insidiata, a destra, da partiti populisti che attraggono un elettorato popolare un tempo appannaggio dei progressisti.
Quindici anni fa la sinistra si era affermata grazie a un mutamento sostanziale, quanto implicito, nei suoi programmi e nei suoi riferimenti sociali. Il progressivo spostamento verso le domande di settori sociali educati, occupati a livelli medio-alti (in particolare nel pubblico) o libero-professionali, modificava la sua agenda, ed anche il suo profilo sociale. I problemi del lavoro salariato, e suoi rappresentanti, scomparivano, sostituiti, da un lato, da una inedita (e spericolata) attenzione alle richieste del mercato e, dall’altro, dall’enfasi sui nuovi diritti civili. In alcuni casi questo slittamento culturale e sociale consentiva ad alcuni partiti socialisti di mantenere il potere; ma l’afflusso di nuovi elettori “borghesi” non sempre compensava la fuoriuscita di quelli popolari che non si sentivano più rappresentati. Fino alle soglie della Grande Crisi i partiti socialisti hanno grosso modo resistito; dopo è venuto il tracollo. Non hanno retto alla doppia sfida portata dai partiti conservatori moderati, che erano più credibili nelle opzioni pro-market, e dai partiti populisti, che si rivolgevano agli strati sociali sotto- privilegiati accusando la sinistra di averli abbandonati. Le difficoltà insite in questa mutazione sono esplose negli ultimi anni. Nella rincorsa al consenso di settori sociali nuovi – e tradizionalmente ostili - la sinistra ha spesso perso l’anima: non ha saputo coniugare la difesa dei più deboli con l’adattamento ai cambiamenti del contesto socio-economico e culturale.
L’irruzione, del tutto inimmaginabile fino a pochi mesi fa, di una leadership nettamente “di sinistra” alla guida del Labour Party britannico è frutto di questa difficoltà (oltre che dell’arroganza dei banchieri come scriveva quel foglio bolscevico del Financial Times …). Infatti, come molte analisi hanno evidenziato, alle ultime elezioni il Labour ha perso non perché non si è spostato al centro, bensì perché lo ha fatto fin troppo, tralasciando di rimarcare le sue specificità, alternative alla destra. E lasciando spazio alla propaganda dell’ Ukip di Nigel Farage che ha gli ha drenato voti della classe operaia peraltro già in uscita dal Labour da alcuni anni. Tony Blair, pur frequentando la City, ed essendovi amorevolmente accolto, aveva parole di fuoco contro i Conservatori che definiva, nei suoi discorsi congressuali, «l’estrema destra che difende un sistema educativo di apartheid a favore dei ricchi, e il privilegio contro la giustizia sociale». Il New Labour di Tony Blair ha vinto tre elezioni di fila grazie alla camaleontica abilità del suo leader, seduttivo verso il big business ma anche efficiente nel ridurre le discriminazioni e la povertà, in particolare quella infantile. Poi il Labour si è perso per strada, come tanti altri partiti di sinistra, e né Gordon Brown né Ed Miliband lo hanno risollevato. Senza l’immagine suadente di Blair, capace di attrarre la middle England e di trattenere senza troppe perdite la classe operaia, il Labour si era ridotto a una versione rosa del Conservatori. Tenuto conto di queste evoluzioni la vittoria di Jeremy Corbyn non deve sorprendere. Rappresenta il tentativo di ridare una identità forte al partito, precondizione necessaria (ma non sufficiente) per tornare a vincere. Il linguaggio un po’ retrò del nuovo leader risuona con le domande di gran parte dell’elettorato popolare britannico: giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze, servizi più efficienti e accessibili. Ma, ancora di più, attira il suo “stile” personale, autentico e dimesso, lontano anni luce dall’arroganza posh dei conservatori e dal glamour da cool Britannia dei blairiani. Anche questo conta nell’era della crisi e dell’antipolitica. Un linguaggio meno aulico, una immagine più in tono con la difficoltà dei tempi, un richiamo ai valori identificativi costituiscono i primi passi per riconquistare l’attenzione dei milioni di cittadini che sono usciti dalla politica o hanno seguito il demagogo di turno. Non è correndo verso il centro che si vincono le elezioni, secondo una vecchia e contestata teoria. Oggi si vince offrendo all’elettorato una proposta molto precisa e distintiva, che differenzi e caratterizzi il partito. Se quindi la sinistra vuole affermarsi contro i suoi due nemici - i conservatori e i populisti - non deve inseguirli sui loro terreni, bensì deve elaborare e proporre la propria visione. Jeremy Corbyn può essere solo una meteora e cadere sull’inesperienza e su un radicalismo vecchio stile, che pure ha illustri tradizioni nella storia laburista. Oppure può dimostrare che giustizia sociale, protezione dei deboli e diritti universali sono ancora temi fondativi e mobilitanti. E possono diventare policy efficaci se applicate con il dovuto pragmatismo.