Repubblica 11.9.15
Le lezioni messicane del Calvino filosofo
Nel trentennale della morte viaggio a Tula, luogo in cui il grande scrittore rinnegò il suo “sguardo da archeologo”sul mondo dei segni: “Interpretare è tradire”
di Massimo Rizzante
Di stanza a Città del Messico per un mese. Abito per un po’ nella Casa Refugio Chitlatépetl, tra Condesa e Hipódromo, quartieri sicuri e ricchi della capitale. Basta uscire in strada e osservare il passo tranquillo dei cani d’alto bordo e dei loro padroni. Dopo qualche giorno decido di andare a Tula, l’antica capitale dei toltechi, un popolo prudente e saggio, il cui regno durò cinque secoli e che fu sempre fedele a Quetzalcóatl, il celebre dio raffigurato come un serpente piumato. Dopo un’ora e mezza di corriera mi trovo di
fronte a una zona archeologica dominata da una grande piramide sopra la quale quattro enormi guerrieri in basalto, gli Atlanti, guardano l’orizzonte. Perché sono salito fin quassù? Per vedere gli Atlanti? Non proprio. Sono qui per rendere onore a Italo Calvino. È morto trent’anni fa. Ho come la sensazione che in Italia sia stato prima postmodernizzato, accusato cioè con frivolezza di tutte le derive di quella stagione che ormai nessuno ricorda più, poi canonizzato, quindi messo nel dimenticatoio dove stanno tutti i morti.
Sono qui perché anche lui molto tempo fa è stato da queste parti. Ho come la sensazione che in mezzo a tutte queste rovine il suo “sguardo d’archeologo”, come scrisse nel lontano 1972, mi sia ancora utile a descrivere pezzo per pezzo il mio mondo. Quando è morto, stava componendo le Lezioni americane , dove descrive i valori letterari che avrebbe voluto conservare: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Oggi, agli inizi del millennio che Calvino non fece in tempo a vedere, le sue conferenze mi sembrano lettere inviate ad amici ignoti. Ricordo la fine del libro: «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…».
Che senso avrebbe la letteratura se non fosse divorata dalla pretesa impossibile di uscire da se stessa? Sarebbe un gioco che si inventa le sue regole e basta. Proprio questa domanda è il valore essenziale, implicito in ogni pagina delle Lezioni americane.
Prima di scrivere le lezioni, nel 1983 Calvino pubblica Palomar .
In un capitolo del libro,
Serpenti e teschi , il protagonista è in Messico. Visita le rovine dell’antica Tula. Con lui c’è un amico, esperto delle civiltà precolombiane. Palomar lo ascolta con attenzione, attratto dal gioco di rimandi che viene dai reperti del passato. Però è incuriosito anche dall’atteggiamento opposto, apparentemente rinunciatario, di un maestro elementare che sta accompagnando la sua scolaresca. Il maestro non offre una spiegazione – analogica, simbolica, allegorica, mitologica – dei monumenti, ma termina invariabilmente il suo discorso agli allievi con un laconico: «No se sabe lo que quiere decir» («Non si sa quello che vuol dire»). Palomar è a disagio. Si rende conto che le parole del maestro, pur non avendo nulla di scientifico, possiedono una certa saggezza. Riflette: «Il rifiuto di comprendere più di quello che queste pietre ci mostrano è forse il solo modo possibile per dimostrare rispetto del loro segreto; tentare di indovinare è presunzione, tradimento di quel vero significato perduto».
Per il maestro elementare, le pietre di Tula non sono segni, puntelli su cui far leva per almanaccare castelli di significati; sono apparenze che si presentano alla percezione e che perciò richiedono da parte di chi guarda una certa remissione delle facoltà razionali. Mentre Palomar sa già quel che vede, il maestro elementare si meraviglia e tace perché non lo sa. Per lui l’ignoto è all’ordine del giorno. Le cose sono mute. Possono emanare uno stato di quiete, ma che cosa possono dirci? Palomar, malgrado si sforzi, non riesce al contrario a trattenersi dal compiere l’eterna ubris, non smette cioè di pensare, di interpretare ogni cosa che vede, con tutto il fardello di nevrosi e scacchi che ciò comporta.
Ecco cos’è stata Tula per Calvino: la possibilità di sospendere la danza ermeneutica attorno alle cose, di cominciare un’altra danza. Il suo destino, come nel caso di Palomar, è stato poi quello di interpretare fino al suo ultimo giorno, tanto che il suo erratico tentativo di descrivere i valori letterari da trasmettere al millennio che non vide, si può ben definire, come nel caso del suo personaggio, una lunga esercitazione alla morte. Però qualcosa, alla fine delle sue Lezioni americane , è rimasto della laconica lezione del maestro elementare di Tula. Per questo mi piace immaginarlo qui, pieno di meraviglia di fronte a queste rovine mute, un po’ meno incredulo di fronte alle apparenze del mondo, mentre scende in silenzio le scale della grande piramide con al seguito una scolaresca di piccoli toltechi dalla testa impiumata.