lunedì 7 settembre 2015

La Stampa 7.9.15
Ma adesso torni in campo la diplomazia
di Roberto Toscano


Ha ragione il presidente Mattarella. Come ha detto nel suo breve, ma incisivo messaggio al convegno di Cernobbio, sarebbe un grave errore pensare di poter affrontare il problema dell’esodo di centinaia di migliaia di persone dalle aree di guerra con un approccio emergenziale invece che strutturale.
Certo, l’emergenza esiste, e la sua drammaticità sembra avere finalmente cominciato ad intaccare il muro di indifferenza ed egoismo dietro cui troppi avevano pensato di chiamarsi fuori da questa colossale tragedia collettiva. Lo si deve senza dubbio all’aumento esponenziale degli arrivi sul territorio di Paesi europei. Ma lo dobbiamo anche al piccolo Aylan e alla foto del suo corpicino inerte su una spiaggia turca.
Non manca chi si scandalizza, accusando d’ipocrisia chi si commuove di fronte alla morte di un solo bambino siriano quando ormai sono decine di migliaia che hanno perso la vita nell’interminabile guerra civile. Il fatto che spesso è solo il caso individuale, concreto, a dare alla gente il senso della realtà, della sua drammaticità, del suo orrore. Quanti bambini vietnamiti erano stati bruciati dal napalm prima di quella famosa foto della bimba che correva gridando con le braccia staccate dal corpo terribilmente ustionato?
Quella foto, però, contribuì non poco a fare comprendere ai cittadini americani che cosa si stava facendo in loro nome e in nome della «difesa della libertà». E come dimenticare che quando Steven Spielberg volle, nel suo film «Schindler’s list», scuotere lo spettatore e chiamarlo a riflettere, fece comparire nel suo film, in bianco e nero, una bimba vestita di rosso. Una bambina concreta, una persona, che in quel modo si staccava dalla massa indistinta, e quindi emotivamente neutralizzabile, dei milioni di ebrei di tutte le età sterminati nella Shoah.
Se la commozione ci porta ad essere più umani, perché obiettare, criticare, sospettare? Ma quello che oggi dobbiamo chiederci è cosa accadrà quando questa commozione, che è riuscita a produrre mobilitazione e solidarietà, perderà la sua forza, magari di fronte ad altre, purtroppo prevedibili, tragedie.
Ieri abbiamo letto su un quotidiano italiano forti critiche ad Angela Merkel, responsabile di «aprire la porta all’invasione dell’Europa», assieme a un editoriale in cui si richiamavano i governi europei a non abdicare a uno dei loro compiti fondamentali: la difesa delle frontiere. Sarebbe inutile cercare di basare una confutazione di queste tesi soltanto sull’etica: sappiamo anche troppo come in certi ambienti sia diventato di moda attaccare il «buonismo», che in chiave polemica ha fatto scomparire l’obsoleta bontà, così come l’aspirazione alla giustizia è definita giustizialismo e la morale moralismo. Ma la debolezza fondamentale di queste impostazioni che si vorrebbero realiste sta proprio nel loro totale distacco dalla realtà.
Come si fa a non vedere che questi fenomeni sono in gran parte il prodotto della globalizzazione? Le frontiere degli Stati, che qualcuno s’illude ancora di poter rendere impenetrabili, non ci permettono di isolarci dalle crisi economiche, dai fenomeni di degrado ambientale e dalla minaccia di un terrorismo anch’esso sempre più globale. Nello stesso tempo le frontiere sono sempre più irrilevanti per i flussi finanziari e per quelli dell’informazione. E allora, come si fa a illudersi che esse rimangano quelle di una volta, invalicabili, soltanto per quanto riguarda le persone? Non esiste la globalizzazione «à la carte».
Indietro non si torna, e lo sappiamo tutti, a parte gli allucinati aderenti ad assurde utopie reazionarie che fantasticano di un’impossibile riconquista di un’omogeneità perduta, fra l’altro mai realmente esistita. La globalizzazione non è reversibile, ma andrà gestita – in tutti i suoi aspetti, non solo quello migratorio – aggiungendo all’economia e alle comunicazioni una dimensione di governabilità fatta di regole condivise e istituzioni comuni.
Per l’Europa tutto questo è non solo urgente, ma anche più possibile che non per altre parti del mondo. Si tratta di un problema sia di volontà politica che di leadership – una volontà politica e una leadership che oggi sembrano emergere dalla reazione del governo tedesco, e in primo luogo di Angela Merkel, alla drammatica sfida dei rifugiati.
La cancelliera non è certo un personaggio politico caratterizzato dall’impulsività o dalle facili demagogie, ma sembra avere capito che qualcosa di molto profondo è avvenuto nell’opinione pubblica tedesca, che non è certo unanime (anzi, ci si possono aspettare reazioni anche violente delle frange xenofobe), ma che nella sua grande maggioranza sta dimostrando di essere pronta ad affrontare il problema sulla base congiunta di forte motivazione etica e grande capacità organizzativa.
Una soluzione sostenibile non potrà comunque basarsi soltanto sulla solidarietà della Germania, ma richiederà una condivisione politica e una traduzione normativa a livello di Unione Europea. Senza uno schema comunitario di ripartizione obbligatoria la Germania da sola, anche con tutta la sua forza economica e la sua buona volontà, non sarà in grado di reggere.
E’ qui che risulta francamente indecente l’atteggiamento di Paesi del Centro-Est Europa che, nonostante il loro recente passato li dovrebbe rendere particolarmente sensibili al dovere di una solidarietà di cui sono stati beneficiari, oggi si chiudono nel più sordo egoismo, spesso rivendicato sulla base di un nazionalismo dagli inquietanti echi xenofobi. Dovranno cambiare registro, o altrimenti (gli strumenti esistono e se ne sta già considerando l’applicazione) essere obbligati a rispondere in chiave finanziaria del loro scarso europeismo.
Ma non si tratta solo di Europa. Come ha scritto Michael Ignatieff sul «New York Times», la crisi dei rifugiati non è «un problema europeo», ma mondiale, e alla sua soluzione dovrebbero contribuire tutti: dagli Stati Uniti all’Australia, dal Brasile al Canada, senza escludere di certo i facoltosi Paesi arabi del Golfo, finora scandalosamente assenti.
Ma quello che è soprattutto urgente è un più intelligente e coraggioso uso dello strumento diplomatico: dopo il successo nel negoziato sul nucleare iraniano, oggi dovrebbe toccare alla Siria, dove le parti in lotta, e i loro sponsor internazionali, dovrebbero finalmente capire che un compromesso di pace è oggi più realista di un’illusoria vittoria totale.