La Stampa 17.9.15
Da Akhenaton a Mosè
Non avrai altro dio
Il faraone eretico e il profeta biblico sono gli inventori del monoteismo Ma il primo lo fondava su un principio cosmologico, l’altro sulla Legge
di Jan Assmann
Akhenaton, l’eretico faraone egizio che intorno al 1350 a. C. abolì la religione tradizionale dell’Egitto e introdusse al suo posto il culto del Sole come unica divinità, e Mosè, che secondo la narrazione biblica all’incirca negli stessi anni, 100 anni prima o dopo, liberò gli Israeliti dalla schiavitù egizia e li vincolò all’alleanza con JHWH in quanto unico Dio, sono considerati gli inventori, o gli scopritori, del monoteismo. Subito dopo la riscoperta di Akhenaton, che in Egitto fu vittima di una damnatio memoriae e solo grazie all’egittologia del tardo XIX secolo cominciò a riemergere dall’oblio, si produssero teorie che cercavano di mettere in relazione tra loro i due fondatori di religioni monoteiste. Mosè e il suo messaggio monoteista furono influenzati dalla rivoluzione monoteista di Akhenaton? Mosè era un seguace di Akhenaton, come suggerì Sigmund Freud, che dopo la sua morte e la messa al bando della sua religione migrò verso Canaan e portò con sé il popolo degli Ebrei, insediato nel delta del Nilo?
Tra storia e leggenda
Entrambi, Akhenaton e Mosè, sono legati da un destino analogo ma opposto, quanto al ricordo che hanno lasciato di sé. Akhenaton è una figura della storia, la cui esistenza è provata inequivocabilmente da centinaia di dati archeologici, ma che tuttavia, a motivo della damnatio memoriae di cui è stato oggetto, non ha potuto dare avvio ad alcuna tradizione nella memoria culturale dell’Egitto. Il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei re, i suoi templi abbattuti ed eliminata ogni traccia visibile della sua esistenza. Mosè, al contrario, è una figura della tradizione, della cui esistenza storica non si sono mai potute trovare tracce archeologiche, tanto che si dubita del fatto che sia storicamente esistito. E anche se una volta dovessero emergere tracce di questo tipo, il Mosè storico avrebbe senz’altro ben poco in comune con la figura titanica cui Mosè è stato innalzato nella tradizione e che è viva ancora oggi nella mente e nel cuore di ebrei, cristiani e musulmani. Uno dei due, Akhenaton, è vissuto senz’altro ed è stato dimenticato con decisione ed efficacia; l’altro, nel ricordo, ha acquisito dimensioni fantastiche, ma probabilmente non è mai vissuto.
A uno sguardo più da presso, tuttavia, si evince come le storie di entrambi, nel ricordo di chi venne dopo, non furono poi tanto diverse l’una dall’altra. A entrambe le figure si intrecciano delle leggende, dalle quali, nel caso di Akhenaton, si desume che egli non venne davvero dimenticato del tutto, bensì sopravvisse nella memoria collettiva lasciando oscure tracce di sé; nel caso di Mosè, che egli, insieme con il suo messaggio - così, almeno, dice la leggenda - cadde nell’oblio, cosa che ebbe terribili conseguenze per il suo popolo.
Tutto deriva dal Sole
Cominciamo da Akhenaton. Nato all’incirca nel 1370 con il nome di Amenofi IV, prese il trono da ragazzino o comunque in giovane età e si diede il nome di Akhenaton, tenendo il potere per 17 anni. Questo arco di tempo gli fu sufficiente per rivoluzionare la religione egizia dalle fondamenta. I templi vennero chiusi, i sacerdoti congedati, le feste e i culti sospesi, le immagini degli dèi distrutte, i loro nomi cancellati. E anche se queste misure non riuscirono a essere applicate ovunque in tutta la loro radicalità, restano tuttavia molte tracce a indubitabile testimonianza degli intenti di Akhenaton. Al posto degli dèi rimossi venne imposto il culto del Sole come unica divinità.
Che cosa ha indotto Akhenaton a cancellare le varie divinità e fondare una religione radicalmente nuova? Dietro a questo progetto sta, con tutta probabilità, una scoperta cosmologica, e cioè la scoperta che il Sole non produce soltanto luce e calore, per via del suo splendere, bensì anche il tempo, per mezzo del suo muoversi in cielo, e che inoltre l’intera realtà può essere spiegata basandosi sulla luce, che rende tutte le cose visibili, e sul tempo, in cui tutte le cose si sviluppano, di modo che le altre divinità non servono più: non contribuiscono in nulla alla realtà.
Differenza fondamentale
La dottrina di Akhenaton è più una teoria cosmologica che una religione e più un atto illuminista che la fondazione di una nuova fede. […] Non si abolisce soltanto il mondo degli dèi, a favore dell’unico dio Sole, ma anche - e questo, sinora, non è stato tematizzato - il ruolo tradizionale del dio del Sole come giudice e come dispensatore di orientamento morale. Come in Mesopotamia, anche in Egitto il dio del Sole era considerato guardiano di ciò che è giusto, giudice degli uomini, colui che vede tutto, che porta alla luce l’ingiustizia commessa e attraverso la sua luce diffonde la giustizia. Il dio di Akhenaton è tuttavia il Sole cosmico, e nient’altro che il Sole, che splende sui buoni e sui cattivi e non formula alcun tipo di giudizio morale.
Questo tratto della nuova religione è incredibilmente sfuggito agli studiosi dell’epoca della riscoperta di Akhenaton. Si esaltò la spiritualità profondamente etica della religione di Akhenaton, che la separava in maniera così netta dalla religione tradizionale e l’avvicinava così tanto al testo biblico. Invero, si trattava esattamente del contrario. […].
Il dio di Akhenaton non si dà pena per il buono e il cattivo, il povero e il ricco, il giusto e l’ingiusto. Lui è il Sole, che splende per tutti. Qui sta la differenza fondamentale tra il monoteismo di Akhenaton e quello biblico, legato al nome di Mosè. Se proprio si vuol tendere un paragone tra il monoteismo di Akhenaton e quello di Mosè, lo si può cogliere nell’energia della soppressione e dell’annientamento, nel loro rifiuto del pantheon di dèi a favore di un unico dio; tuttavia, le affinità spariscono appena ci si volga al contenuto positivo delle due religioni. L’una è fondata sul Sole, l’altra sulla Legge.
La Stampa 17.9.15
Il Papa: “La donna tentatrice è solo un luogo comune”
Francesco: “Offensivo: è portatrice di una benedizione speciale La famiglia salva dalle ideologie e dalla colonizzazione del denaro”
di Domenico Agasso Jr
La donna è «tentatrice che ispira al male? No, questo è solo un luogo comune offensivo». Da sfatare. È la nuova presa di posizione di papa Francesco a difesa del mondo femminile, dopo l’appello di aprile sulla disparità delle retribuzioni («È uno scandalo che le donne guadagnino meno degli uomini»). Nell’udienza generale di ieri mattina in piazza San Pietro il Pontefice argentino ha concluso il ciclo di catechesi sulla famiglia iniziato il 10 dicembre: la tempistica non è casuale, dato che Jorge Mario Bergoglio sabato partirà per Cuba e Stati Uniti (un viaggio per il quale nutre «grande speranza»), dove, tra i vari appuntamenti, parteciperà all’Incontro mondiale delle Famiglie a Philadelphia; e pochi giorni dopo, a partire dal 4 ottobre, presiederà il Sinodo ordinario sulla famiglia.
Dalla Bibbia, ha sottolineato il Papa, emerge che «la donna porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal Maligno! Come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nascondere il figlio dal Drago. E Dio la protegge». Francesco ha invitato a pensare a «quale profondità si apre qui! Esistono molti luoghi comuni, a volte persino offensivi, sulla donna tentatrice che ispira al male. Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio per lei e per la generazione!».
E a meno di tre mesi dal Giubileo straordinario della misericordia, il Papa ha anche ribadito che «la misericordiosa protezione di Dio nei confronti dell’uomo e della donna non viene mai meno per entrambi». Lo dice il linguaggio simbolico delle Sacre Scritture: «Prima di allontanarli dal giardino dell’Eden, Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì. Questo gesto di tenerezza significa che anche nelle dolorose conseguenze del nostro peccato, Dio non vuole che rimaniamo nudi e abbandonati al nostro destino di peccatori». E questa «tenerezza divina, questa cura per noi, la vediamo incarnata in Gesù, figlio di Dio “nato da donna”. Cristo, nato da una donna. È la carezza di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri sbagli, sui nostri peccati». È la conferma massima che «Dio ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna – ha sottolineato «a braccio» – è quella più forte che porta avanti questo progetto».
Francesco ha anche caldeggiato, nell’attuale «passaggio di civiltà» segnato da «una subordinazione dell’etica alla logica del profitto», una «nuova alleanza della famiglia, dell’uomo e della donna», necessaria e «strategica per l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro». Alleanza che «deve tornare a orientare la politica, l’economia e la convivenza civile».
Corriere 17.9.15
«Tentatrici? Basta stereotipi»
«No a luoghi comuni sulla donna tentatrice»: sono le parole di papa Bergoglio. «C’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio».
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO Francesco l’aveva buttata lì durante un’udienza prima dell’estate, una battuta mentre parlava del «puro scandalo della disparità» tra uomo e donna e metteva in guardia dalla «falsità» di chi dice che il matrimonio è in crisi a causa dell’emancipazione femminile: «È una forma di maschilismo, che sempre vuole dominare la donna. Facciamo la brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: “Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero? E lui: “La donna me l’ha dato”. E la colpa è della donna, povera donna, dobbiamo difendere le donne!».
Detto, fatto. La battuta di qualche mese fa è diventata ieri una riflessione teologica che il Papa ha proposto in piazza San Pietro nell’ultima delle catechesi dedicate alla famiglia. Adamo, Eva, la mela. E quella frase nel terzo capitolo della Genesi, cita Francesco, le parole che Dio rivolge «al serpente ingannatore, incantatore», versetto 15: « Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe ». Francesco scandisce: «Pensate quale profondità si apre qui! Esistono molti luoghi comuni, a volte persino offensivi, sulla donna tentatrice che ispira al male. Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio per lei e per la generazione!».
Lucetta Scaraffia, coordinatrice dell’inserto Donne Chiesa mondo dell’ Osservatore Romano , notava ieri che «lo stereotipo» secolare della donna tentatrice «ha avuto molta fortuna nella Chiesa». E Francesco, ieri, lo ha demolito. I «luoghi comuni offensivi» dicono l’opposto della verità. Perché con le parole rivolte al serpente, ha spiegato il Papa, «Dio segna la donna con una barriera protettiva contro il male, alla quale essa può ricorrere — se vuole — per ogni generazione». Lo stesso Cristo, ricorda, è nato da una donna. E il racconto della Genesi «vuol dire che la donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno: come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nascondere il figlio dal Drago. E Dio la protegge».
Anche da qui deve partire quella riflessione che Francesco invocò dall’inizio del pontificato, nel 2013: «Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, quella che aiuta a crescere la Chiesa. La Madonna è più importante degli Apostoli! E la Chiesa è femminile... Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa». Capire questo, oltre i «luoghi comuni» e le disparità, è fondamentale per quella «nuova alleanza tra uomo e donna» che Francesco ritiene «non solo necessaria ma anche strategica» nel nostro tempo: per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro». Il Papa anticipa temi del prossimo viaggio a Cuba e negli Usa, che si concluderà con l’incontro delle famiglie a Philadelphia. Temi che saranno anche al centro del Sinodo di ottobre.
Tutto si tiene. Francesco spiega che «l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica». E «la subordinazione dell’etica alla logica del profitto dispone di mezzi ingenti e di appoggio mediatico enorme». Qui sta il ruolo decisivo della famiglia: «La nuova alleanza tra uomo e donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile!».
Perché Dio «ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo», esclama: «La famiglia è alla base di questa cultura mondiale che ci salva da tanti attacchi, distruzioni, colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano il mondo. La famiglia è la base per difendersi!».
Proprio ieri, il Consiglio di nove cardinali («C9») voluto dal Papa ha definito la nascita di una nuova Congregazione che si occuperà di fedeli laici, famiglia e vita e assorbirà le competenze di due pontifici consigli: un «ministero» ad hoc che non è solo una semplificazione della Curia e dice tutta l’importanza che la questione ha per il Papa. Nel «C9», tra l’altro, si è discusso anche delle procedure per la nomina dei vescovi del mondo: il Papa — forse non convinto da alcune candidature — ha deciso che le procedure per raccogliere informazioni e sondare «qualità e requisiti dei candidati» dovranno essere aggiornate.
Gian Guido Vecchi
Corriere 17.9.15
Francesco in America
La doppia visita del Papa a Castro e al Congresso Usa da capo spirituale di un continente a leadership cattolica
La marcia di avvicinamento alle Americhe è stata tutt’altro che casuale. Non conta tanto la Giornata mondiale della gioventù in Brasile dell’estate del 2013: quella era stata preparata dal predecessore, Benedetto XVI. Il viaggio che Francesco ha voluto fortemente, invece, è stato quello del luglio del 2015, scegliendo tre nazioni periferiche, povere, «minori» come Bolivia, Ecuador e Paraguay. Terre dove la sua enciclica Laudato si’ , con forti echi ecologici e sociali, poteva tradursi immediatamente in realtà; e dove il Papa ha potuto rintuzzare le critiche contro un’enciclica «verde» e «militante», arrivate dai conservatori statunitensi. Anche se in uno dei suoi discorsi, quello ai movimenti popolari, qualcuno ha notato una durezza eccessiva contro il capitalismo. Francesco si è anche sentito rimproverare di parlare poco di classe media. Ma, ha spiegato, «il mondo è polarizzato, la classe media diventa sempre più piccola e la polarizzazione tra ricchi e poveri è grande».
Dietro le sue parole si intravede la sagoma delle villas miserias , le sterminate periferie suburbane di Buenos Aires; e di centinaia di altre simili a Rio de Janeiro, San Paolo, e in altre megalopoli. È lì che Bergoglio ha plasmato la sua «teologia del popolo» alternativa a quella della liberazione. Il groviglio di problemi che queste realtà offrono sono il primo dono pesantissimo che porge agli Stati Uniti: una frontiera avanzata non solo per la società ma per la Chiesa. Per questo l’ex arcivescovo di Buenos Aires non può essere etichettato con categorie europee o, peggio, italiane. È un prete urbano, anzi di una megacity. Il secondo «dono» portato a Washington a fine settembre è Cuba: la tappa ultima del suo passaggio a Sudovest. I tre giorni nell’isola caraibica distrutta dalla dittatura comunista della famiglia di Fidel e Raúl Castro, ma anche dall’embargo statunitense, rappresentano una visita all’insegna della geopolitica...
La genuflessione corale di tutti i capi di Stato latinoamericani, conservatori e progressisti, nei confronti di Francesco lo porta al cospetto di Obama e del Congresso degli Stati Uniti come il capo spirituale dell’intero Sudamerica: la nuova figura egemone di un continente che sta cercando una nuova unità e nuovi equilibri economico-sociali. «I popoli latinoamericani devono dialogare per creare la Patria Grande», ha insistito il Papa sul volo che lo riportava a Roma dall’Ecuador a metà luglio. La novità storica è che questo dialogo non avviene più sotto le insegne del socialismo marxista o delle dittature militari sostenute più o meno apertamente dagli Usa in chiave anticomunista. La leadership è cattolica. Anzi, papale. Resa possibile dalla statura e dai cromosomi culturali di un pontefice «meridionale».
Francesco è l’uomo della riconciliazione. In America Latina, questo significa far cadere l’ultimo «muro di Berlino», e cioè il «muro dell’Avana»; e altri muri invisibili, nascosti negli archivi segreti e nella memoria collettiva di quei popoli. Significa consegnare al passato le guerre civili combattute in nome del marxismo e del capitalismo, con la Chiesa cattolica e i suoi episcopati nel ruolo di vittime, a volte di complici. Ha colpito molto il regalo fatto a Francesco dal presidente boliviano Evo Morales: un crocifisso con la falce e il martello, opera di padre Luís Espinal, ucciso negli anni Ottanta perché difendeva i poveri e la democrazia. Qualcuno ha voluto vedere un abbraccio postumo della teologia della liberazione di matrice marxista da parte del pontefice. In realtà, con quel gesto Morales ha riconosciuto al Papa una leadership mai attribuita prima alla Chiesa.
L’Unione Sovietica è morta e sepolta, e non ha più nessun potere su quel mondo. Rassicurati, gli Usa si sono defilati. Ed è emersa la sfera d’influenza di un romano pontefice argentino. Negli Stati Uniti arriva dunque da capo di un Sud del mondo da intendere ben al di là dei confini latinoamericani; rintracciabile in ogni periferia, dall’Europa all’Africa, agli stessi ghetti statunitensi. Su questo sfondo si comprendono meglio i suoi viaggi nelle zone apparentemente più eccentriche. Ma per paradosso il suo viaggio più eccentrico è proprio quello nell’America del Nord: potenza industriale, militare, economica e cuore dell’«impero» dell’Occidente. Quando gli hanno riferito delle critiche alla sua enciclica sui cambiamenti climatici provenienti dagli Usa, Francesco ha risposto, sornione: «Fino a oggi avevo studiato i dossier su questi tre Paesi bellissimi. Ora studierò Cuba e gli Stati Uniti».
In realtà li sta studiando da mesi, attraverso documenti e analisi affidate ad alcuni vescovi e cardinali americani fidati, e a un gruppo ristretto di consiglieri latinoamericani. Ma soprattutto, gli Stati Uniti stanno studiando lui. La Religious Newswriters Association ha organizzato a Filadelfia nell’agosto del 2015, presso la Pontifical University Santa Croce, una giornata intera di dibattito sulla Chiesa negli Usa: con molti vescovi statunitensi e duecento giornalisti dei maggiori media americani. E come «Vatican insiders», e cioè conoscitori del Vaticano dal di dentro, ha chiamato padre Thomas Rosica, canadese, direttore della tv cattolica Salt and Light, la più importante del suo Paese; e l’uruguayano Guzmán Carriquiry, vicepresidente del Pontificio consiglio per l’America Latina, consigliere e amico storico di Bergoglio.
A loro è toccato aprire la strada alla comprensione di Francesco; e spiegare quali contrapposizioni avrebbe cercato di evitare, scegliendo un terreno che andasse oltre le categorie dei «liberal» e dei «conservatori», che per anni hanno avvelenato anche l’episcopato statunitense. Intanto, c’era l’ammissione che il Papa non conosceva «a fondo, in prima persona questo grande Paese, la sua società complessa e dinamica». Doveva affidarsi «alla tradizione e alla sapienza della Santa Sede», e stare «in attento ascolto dell’episcopato statunitense». Si fotografava la realtà di un episcopato diviso secondo categorie e schemi nei quali il Papa rifiuta di farsi ingabbiare. Secondo i suoi esegeti, Francesco va molto al di là della polarizzazione tra conservatori e liberal. Additano tuttavia il rischio di una saldatura tra i due fronti statunitensi, tentati di vedere nel pontefice chi vorrebbe cambiare la dottrina della Chiesa. Accusa insidiosa, confutata opponendole la capacità di riscoprire in forme sempre nuove il messaggio evangelico…
Era una difesa preventiva di Bergoglio: il tentativo di neutralizzare in anticipo accuse come quella di essere in contrapposizione coi suoi predecessori; e di rinunciare a difendere i valori non negoziabili. L’insistenza sull’immigrazione come ricchezza da non disperdere né umiliare era il corollario naturale di questa impostazione. Si legava all’esigenza di arricchire la libertà di professare la propria fede, e di permettere la migliore convivenza tra religioni diverse: una caratteristica sulla quale storicamente gli Stati Uniti erano stati maestri. Ma gli uomini di Bergoglio avvertivano anche che dal Papa non sarebbe potuta mancare «una parola forte» sugli immigrati ispanici. Si sottolineava con orgoglio che erano stati i primi esploratori, colonizzatori e missionari degli Stati Uniti.
Francesco avrebbe invece insistito sul fatto che «la pastorale ispanica non è un’aggiunta a una supposta pastorale ufficiale anglocentrica»: anche perché ormai i «latinos» stanno diventando la metà della popolazione. Il suo viaggio diventa dunque anche una rilettura della storia nordamericana. La decisione di Francesco di canonizzare a Washington il 24 settembre del 2015 frate Junípero Serra, un francescano del XVIII secolo considerato «l’apostolo dell’America», ha il significato di riscoprire le radici di un cattolicesimo a stelle e strisce arrivato in California prima delle grandi migrazioni di irlandesi, italiani, polacchi sulla costa atlantica. D’altronde, era stato lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, nel suo saggio Una nazione di immigrati , a sottolineare la rimozione di un’intera fase della storia statunitense negli Stati del Sud.
«Disgraziatamente», scriveva Kennedy, «sono troppi gli americani che credono che l’America fu scoperta nel 1620... e dimenticano la formidabile avventura che ebbe luogo nel XVI e all’inizio del XVII secolo nel Sud e nel Sudest degli Stati Uniti». Era una storia scritta dai vincitori e per i vincitori, secondo molti latinoamericani. Figlia, a loro avviso, di pregiudizi anticattolici e anti ispanici. Pregiudizi che tardano a morire. Junípero Serra è considerato invece parte integrante dell’epopea missionaria cattolica dimenticata: per questo lo Stato della California fece installare una sua statua nella Sala dei Notabili del Campidoglio di Washington nel 1931. Il fronte protestante ha descritto quel sacerdote di Maiorca arrivato in California a metà del 1700 come un colonialista che convertiva a forza i nativi indiani. Ma la narrativa cattolica vede in questa descrizione negativa soprattutto il tentativo di coprire la colonizzazione violenta dell’Ovest ai tempi della «febbre dell’oro» da parte yankee...
La Stampa 17.9.15
La “grande intesa” ridotta dopo un anno a mercato delle vacche
Urla e citazioni in aula, trattative sottobanco fuori
di Mattia Feltri
Augusto Minzolini - senatore di Forza Italia col grande pregio di portare in giro la faccia di uno che si diverte - quando fuori era scuro e dentro anche di più, ha chiesto al presidente Piero Grasso che sarebbe mai saltato fuori da una riforma nata da trattative da back stage. E cioè: non si cerca la maggioranza in aula trattando sugli emendamenti, ma le si cerca fuori soddisfacendo le ambizioni. Dunque, il mercimonio. Piacesse di più l’espressione: il mercato delle vacche. Che poi le cose stiano davvero così oppure no è difficile stabilirlo, poiché ogni senatore ha da raccontare, con beneficio dell’anonimato e senza l’obbligo del dettaglio, tutto il lavorìo di una parte e dell’altra per spuntare l’ultimo voto. E in effetti la situazione è piuttosto vivace, e il cronista che non andasse in Senato da tredici mesi, e cioè dal giorno in cui, nell’agosto del 2014, la riforma istituzionale fu approvata in prima lettura, non ci capirebbe più nulla. Chi stava di qui ora sta di là. Chi diceva sì ora dice no. Per esempio, un anno fa il capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, spiegava che la riforma era un capolavoro e oggi spiega che è una boiata, e Vincenzo D’Anna, che era nel Gruppo delle autonomie e ora è verdiniano, diceva che era una boiata e oggi è lì lì per dire che è un capolavoro. Infatti, sempre nell’agosto scorso, si era stabilita una funambolica intesa fra D’Anna, oratore entusiasmante con trascorsi berlusconiani, e quei guerrieri non ciceroneschi dei cinque stelle. L’intesa è rovinosamente saltata ieri dopo che il capogruppo grillino, Gianluca Castaldi, aveva aperto la seduta col cuore e il vocabolario in mano: «Mi viene da piangere. Fate schifo. Mi auguro che i miei figli non abbiano al governo persone come voi...». D’Anna, che un tempo avrebbe nobilitato di citazioni filosofiche l’eruzione di Castaldi, si è sentito ferito nell’orgoglio e ha qualificato la prosa del collega: «Sono le parole di un cialtrone». «Vergogna!», gli ha gridato un altro grillino, Giovanni Endrizzi, al che D’Anna si è prodotto in valutazioni strettamente politiche: «Cialtrone! Scostumato! Devi vergognarti tu e quei quattro cialtroni che rappresenti! Cretino matricolato! Deficiente! Deficiente! Deficiente!...». Al ventisettesimo deficiente, il presidente Grasso ha accolto l’obiezione: «Abbiamo compreso, senatore D’Anna...».
La scenetta sollecitava il retroscenetta. E cioè ieri, a Palazzo Chigi per un incontro sulla sicurezza nazionale, il capogruppo Lucio Barani di Ali (cioè il movimento di Denis Verdini) ha rassicurato il premier sulla consistenza del drappello, adesso di tredici senatori e prossimo ai quindici, questione di un paio di giorni. Bravi, avrebbe detto Renzi prima di chiedere ad Angelino Alfano che intendesse dunque fare Ncd, visto che la legge elettorale è anche rivedibile, cosa a cui gli alfaniani tengono parecchio. Ed Ncd sarebbe recuperata. Poi ci sono le questioni personali, il grillino Lello Ciampolillo che possiede tre radio in Puglia ed è inviso ai suoi; il senatore Francesco Amoruso, forzista pronto a passare con Verdini nell’ambito della celeberrima operazione Orizzonte 2018, cioè una serena durata della legislatura che avrebbe convinto il paio di ex grillini che hanno fatto rinascere l’Italia dei Valori e le tre senatrici tosiane, nel senso di ex leghiste fedeli a Flavio Tosi. In questo senso, della conservazione del posto, sarebbero molto responsabilizzati altri senatori berlusconiani, e si fanno i nomi di Antonio Milo, di Lionello Pagnoncelli, di Domenico Auricchio. Nei racconti di corridoio, l’andirivieni è frenetico. E si giura su mirabolanti promesse, fatte soprattutto da Verdini, che andrebbe in giro a dire che ci sono trecento posti di sottobosco, fra presidenze di commissione fino a qualche sottosegretariato, per chi volgesse lo sguardo al suddetto Orizzonte 2018. Ma qui il pettegolezzo rischia di sconfinare nella diffamazione e soprattutto nella fantasia morbosa. E allora semmai pare più solida e meno spericolata l’esposizione di Maurizio Gasparri secondo cui «il vero capo dello Stato e vero segretario del Pd, Giorgio Napolitano, sta telefonando a tutti i dissidenti per richiamarli al dovere davanti alla nazione. Figuriamoci, uno che discuteva con Pietro Ingrao, che problema avrà col senatore Pincopallo».
Avrei potuto ridurre quest’aula sorda e grigia ad un bivacco per i miei manipoli
La Stampa 17.9.15
La minaccia di Renzi
“Abolisco il Senatoe ci faccio un museo”
Il premier attende Grasso e prepara le contromosse: l’alternativa è l’elezione diretta in collegi uninominali
di Carlo Bertini
Il piano B matura nella war room del premier - di cui fanno parte Lotti, la Boschi, i capigruppo Zanda e Rosato, pochi fedelissimi del «giglio magico» - e suona come una minaccia-bomba. Già la mattina prima di portare a casa il primo tempo, Renzi fa il punto con i suoi: i numeri ci sono, la fascia oscilla tra i 154 e i 165 voti a favore della riforma; ma siccome tutto è appeso alla decisione del presidente del Senato, da cui potrebbe sortire un allungamento a dismisura dei lavori con migliaia di votazioni, il premier carica l’arma finale: «Se Grasso riapre le votazioni su tutto l’articolo due, allora si rimette tutto in gioco e ogni modifica è possibile, pure quella di abolire il Senato del tutto, come chiedono in molti». Non è solo una battuta: tanto per cominciare se Grasso dovesse smentire la decisione della Finocchiaro di dichiarare inammissibili tutti gli emendamenti, se dunque rompesse quello che Renzi definisce «il principio intoccabile della doppia lettura conforme» delle due Camere, come conseguenza ci sarebbero le dimissioni della presidente della prima commissione.
Museo Palazzo Madama
E per far capire che la minaccia dell’abrogazione del Senato è stata studiata sul serio, quelli che parlano col premier la argomentano con dovizia di particolari, perfino con la destinazione finale di Palazzo Madama: che sarebbe trasformato in «Museo delle Istituzioni della Repubblica», con i dipendenti trasferiti in altri organi dello Stato. Che si possa arrivare a sganciare una bomba del genere, pur con la premessa, «non vogliamo arrivare fin là perché Grasso invece di sicuro chiuderà i giochi e i numeri ce li abbiamo», lo conferma uno dei senatori più vicini al premier, «non è solo un deterrente, se serve la bomba si sgancia, perché tutti, da Bersani alla Lega, hanno detto che allora sarebbe preferibile abolirlo il Senato. Devono capire che se si riaprono le votazioni non stiamo lì a cercare un accordino, ma riscriviamo tutto il testo e poi vediamo...». E siccome le opposizioni potrebbero sempre insorgere con l’argomento che resterebbe solo una Camera di nominati con l’Italicum, questa dell’abrogazione del Senato non è la sola suggestione. Il piano B prevede anche una subordinata meno esplosiva in termini di messaggio anti-casta, ma non meno indigesta per i partiti: l’elezione diretta dei cento senatori, ma tutti in collegi uninominali, quelli già pronti dell’Italicum. Sfide uno contro uno nei territori, con le forze maggiori, Pd, 5 Stelle e in alcune zone del nord la Lega, avvantaggiate. E con Forza Italia, Ncd e i piccoli partiti a rischio zero senatori.
Numeri secondo tempo
«Oggi l’obiettivo era evitare la melina e andare in aula, abbiamo vinto il primo tempo con uno spread di oltre 70 voti», è il bilancio a fine giornata di Renzi. Che lunedì in Direzione legherà il percorso di riforme alla ripresa e non è detto chiamerà tutti alla conta, «non vogliamo umiliare nessuno, ma ribadire quanto sia importante questo passaggio per il Paese». Il premier, dopo aver visto Tosi a tu per tu a Palazzo Chigi, si dispone ad affrontare invece la vera conta in aula con numeri, nel caso peggiore, quota 154, di questo tenore: 90 del Pd su 112, quindi 22 voti in meno previsti dalla minoranza; 27 su 35 di Ncd, otto centristi non sicuri tra cui Formigoni, Giovanardi, Azzollini; 10 di Verdini, 9 dal Misto e 3 senatrici tosiane, Bisinella, Bellot, Munerato; e 15 su 19 delle autonomie, senza calcolare i senatori a vita Ciampi, Rubbia, Piano e Cattaneo.
La Stampa 17.9.15
Certezze e incognite sulla strada del premier
di Marcello Sorgi
Dopo la decisione di Renzi di accelerare, la riforma del Senato approda oggi in aula a Palazzo Madama in un clima di scontro: tra maggioranza e minoranza Pd, tra governo e opposizioni, anche se già ieri sera, quando la conferenza dei capigruppo ha confermato il calendario deciso a Palazzo Chigi, gli allibratori cominciavano a scommettere sul fatto che alla fine il premier la spunterà. Seguendo lo stesso percorso dei precedenti bracci di ferro con i suoi oppositori interni: direzione del partito in cui lunedì la sua linea passerà con largo appoggio, monito alla minoranza sui rischi di crisi di governo con aggiunta di elezioni anticipate, appello rivolto alla base del partito contro la resistenza dei bersaniani che effettivamente buona parte degli iscritti non condivide.
Ma la vera carta da giocare per Renzi sono le opposizioni: esclusi ovviamente Movimento 5 stelle e Lega, che faranno la loro battaglia in aula, gli altri gruppi, a cominciare da Forza Italia, a parole sono fermamente contrari alla riforma ma in realtà cercheranno di evitare che il governo inciampi. Inoltre il leader di Ncd-Area popolare Angelino Alfano è andato al Tg3 per dire che, malgrado quel che si continua a dire e scrivere sulle spaccature nei suoi gruppi, i senatori centristi, salvo qualche eccezione assolutamente fisiologica, voteranno a favore del testo e non insisteranno per ottenere modifiche all’Italicum, che del resto Renzi non ha alcuna intenzione di concedere.
Resta da vedere cosa deciderà il presidente Grasso sulla questione degli emendamenti all’articolo 2, dopo che la presidente della commissione Affari istituzionali Finocchiaro li aveva dichiarati inammissibili. Ieri intanto le opposizioni, in testa Calderoli che ne aveva preparati mezzo milione, hanno deciso di ritirarli, cercando, senza riuscirci, di ostacolare l’accelerata del governo e proseguire la discussione in commissione. Ma nulla esclude che non li ripropongano in aula. A meno che Grasso, che continua a tacere, non tagli la testa al toro, pronunciandosi contro l’emendabilità dell’art. 2.
Corriere 17.9.15
Caso Kyenge, Calderoli «graziato» con l’aiuto dem
Via libera in Aula all’autorizzazione per la diffamazione, ma viene esclusa l’aggravante dell’odio razziale
di Alessandro Trocino
ROMA «Quello dell’Aula di ieri è un messaggio triste, devastante, irresponsabile. Getta un’ombra pesante sulla lotta al razzismo, proprio mentre in Europa cresce la xenofobia». L’ex ministro Cécile Kyenge accoglie così la decisione del Senato, che ieri era chiamato a decidere se autorizzare a procedere i magistrati contro Roberto Calderoli. Il vicepresidente leghista del Senato è accusato di diffamazione aggravata da istigazione all’odio razziale, per aver paragonato la Kyenge a un orango. Parole incomprensibili, quelle dell’attuale europarlamentare pd, se si legge la notizia secca, ovvero il via libera all’autorizzazione.
Ma il voto va letto con più attenzione. Perché il senatore di Forza Italia Lucio Malan ha chiesto (e ottenuto dal presidente Pietro Grasso) il voto in parti separate del reato di diffamazione e dell’aggravante di «incitazione all’odio razziale». Per entrambi la Giunta aveva chiesto la insindacabilità da parte dei magistrati. L’Aula (196 no, Pd compreso) ha deciso di votare l’insindacabilità solo per l’aggravante, dando il via libera alla diffamazione (126 sì e 116 no). Spiega Dario Stefàno, presidente della Giunta per le autorizzazioni: «Così il Pd ha salvato Calderoli. Perché il processo si regge sull’aggravante, visto che non c’è stata una querela di parte della Kyenge, ma da altre associazioni. Venuta meno quella, cade tutto».
In ambienti del Pd si spiega che, ma non c’è la controprova, «se Grasso non avesse ammesso il voto per parti separate, il Pd avrebbe votato sì». Fatto sta che la decisione ha scatenato molte dietrologie. Il Movimento 5 Stelle ha sostenuto che il Pd avrebbe in qualche modo «graziato» Calderoli, sperando in una remissione della valanga di emendamenti sulle riforme. Nello stesso modo era stata letta la richiesta del capogruppo Luigi Zanda di rinviare la decisione, per tenere in sospeso il giudizio su Calderoli in attesa delle voto sulle riforme.
E se Zanda spiega che su questi temi c’è «la libertà di coscienza», Miguel Gotor dice di aver votato «come ha deciso il Pd, per disciplina di partito». Che la scelta abbia creato più di un imbarazzo nel partito, si desume anche dalla dichiarazione dura del capo delegazione pd a Bruxelles Patrizia Toia, che definisce la decisione «miope, inaccettabile e fuori dall’Europa». Europa alla quale la Kyenge ha deciso di rivolgersi per avere giustizia, con un ricorso alla Corte europea. Solidarietà all’ex ministro arriva anche dal deputato pd di origine marocchina Khalid Chaouki. Mentre da Bergamo rimbalza il disappunto dei magistrati dell’inchiesta, che considerano senza precedenti la decisione di votare per parti separati reato ed aggravante e sottolineano come la decisione del Senato sia stata presa con ampio ritardo, visto che il termine previsto era giugno.
La Stampa 17.9.15
Getti d’acqua, gas, spray urticanti
In Ungheria è guerra ai profughi
Centinaia di feriti a Röszke. Ue e Onu: scioccati, contro i nostri valori La Croazia apre un corridoio verso Nord. Balcani “a rischio implosione”
di Giordano Stabile
I profughi siriani bloccati nella terra di nessuno fra Serbia e Ungheria hanno tentato ieri un ultimo, disperato assalto. Fra la cittadina serba di Horgos e quella ungherese di Röszke ce ne sono ancora tremila. Non possono tornare indietro, davanti hanno un muro di metallo e filo spinato alto quattro metri. I tentativi di far breccia sono stati respinti dalla polizia ungherese con tutti i mezzi. Cannoni ad acqua, gas lacrimogeni, spray urticanti: 300 i feriti. Un uso della forza «sproporzionato» che il premier serbo Aleksandar Vucic ha definito «brutale» e ha «scioccato» il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. «La difesa delle frontiere con la violenza non è compatibile con i valori europei», ha ribadito il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos.
Cinquantamila mine
Budapest non ha intenzione di «aprire le porte», come gli urlano oramai da tre giorni i profughi. Il premier Viktor Orban ha annunciato un muro anche con la Croazia. E a Röszke sono apparsi blindati Humvee, armati di mitragliatrici. Il fiume di persone che ha percorso la rotta balcanica è stato deviato su altre vie. La Croazia ha annunciato ieri mattina che li «farà passare», in 180 hanno attraversato subito il confine dalla Serbia, quattromila sono attesi oggi. Con altri rischi, ma non minori, rispetto all’assalto alla barriera ungherese. Il terreno è pieno di mine anti-uomo, eredità della guerra civile jugoslava. «Circa 51.000» secondo i calcoli del Centro di azione sulle mine croato (Hcr).
Zagabria ha inviato una squadra del Centro per proteggere il passaggio dei profughi. Ma più che dalla Serbia teme un afflusso incontrollato al confine con la Bosnia, meno presidiato e infestato dalle mine. Kolinda Grabar Kitarovic, presidente nazionalista eletta a gennaio, ha convocato il consiglio di Sicurezza per domani. Il premier socialdemocratico Zoran Milanovic ha spiegato che la Croazia è «pronta a ricevere queste persone o indirizzarle dove vogliono andare». Zagabria, che fa parte dell’Unione europea ma non di Schengen, ha aperto un «corridoio sicuro» verso la Slovenia e l’area Schengen. A un passo dall’Italia.
Il governo socialdemocratico spera in un rapido transito che non affossi i consensi già in calo fra gli elettori. In Croazia si va verso lo scioglimento del Parlamento la settimana prossima e si voterà all’inizio di novembre, prima dell’anniversario della caduta di Vukovar, il 18 novembre 1991. Ricorrenza che rinfocola ogni anno le tensioni con i serbi e gli animi nazionalisti. Ma, secondo fonti diplomatiche occidentali a Sarajevo e Zagabria, il Paese più esposto a effetti destabilizzanti per il passaggio di centinaia di migliaia di profughi, in gran parte musulmani, è la Bosnia. Mentre quello più «solido», come ha mostrato finora una «gestione responsabile» della crisi, è la Serbia, con un «governo saldo e nessuna elezione in vista».
Polveriera Bosnia
In Bosnia, la diplomazia occidentale vede tre rischi. L’apertura di una nuova rotta attraverso il Paese se Macedonia o Serbia dovessero diventare più restrittive: le sue frontiere «corrono lungo grandi fiumi come la Sava e la Drina o in pianure poco abitate» e sono molto permeabili. Poi c’è la possibilità di «speculazioni politiche» sugli equilibri etnici che reggono le istituzioni bosniache: «L’arrivo di 30-40 mila profughi musulmani, l’1% della popolazione» potrebbe essere visto dai serbi come un tentativo di cambiare la composizione etnica del Paese. Infine il rischio di infiltrazioni «jihadiste» in un Paese dalla comunità musulmana «moderata ma con frange estremiste».
Ma la crisi balcanica ha una radice comune che si chiama Grecia. Dove «una gestione solo finanziaria della crisi» ha lasciato lo Stato indebolito, sfilacciato e ha aperto una breccia nel fianco sudorientale dell’Europa. La soluzione è una «frontiera esterna» dell’Europa che funzioni, gestita con solidarietà fra tutti gli Stati. Il contrario di quello che vediamo oggi.
(Darko Vojinovic/AP) - Peperoncino Agenti ungheresi alla frontiera con la Serbia spruzzano spray al peperoncino per respingere i profughi che cercano di superare la barriera
La Stampa 17.9.15
La sfida di Assad all’Europa “Il caos migranti è colpa vostra”
Il raiss: basta aiuti ai terroristi. E Mosca propone all’America un’alleanza anti-Isis
di Maurizio Molinari
Vladimir Putin estende la presenza delle truppe russe in Siria e chiede ad «altre nazioni» di entrare nella sua coalizione anti-Isis. È un’offerta che il raiss di Damasco, Bashar Assad, indirizza in particolare all’Europa: «Per bloccare l’ondata di rifugiati dovete cessare di aiutare i terroristi» abbandonando l’alleanza guidata dagli Usa per aderire a quella del Cremlino.
Putin cerca alleati
Il presidente russo parla da Dushanbe, l’occasione è il summit sulla sicurezza fra sei repubbliche ex-Urss in Tagikistan dove nell’ultimo mese 20 persone sono state uccise dai jihadisti. «Sosteniamo il governo della Siria nella lotta al terrorismo, daremo ed aumenteremo aiuti militari, senza la Siria sarebbe impossibile espellere i terroristi dalla regione - dice Putin, in diretta tv - mi auguro che altre nazioni seguano il nostro esempio, offrendo sostegno ad Assad». L’intento è dunque di trasformare l’intervento in Siria nella genesi di una coalizione.
Assad, appello all’Ue
Nelle stesse ore il raiss di Damasco incontra nella sua residenza i reporter russi, consegnandogli un messaggio: «Se l’Europa è preoccupata per l’ondata di profughi deve occuparsi delle cause, porre fine al sostegno ai terroristi, iniziare a combatterlo al nostro fianco».
La lettura della guerra è cristallina: «A sostenere i terroristi sono Arabia Saudita, Qatar e soprattutto la Turchia di Erdogan, espressione di un partito con l’ideologia dei Fratelli Musulmani, che si propone di creare un Sultanato dall’Atlantico al Mediterraneo». L’errore di «Francia e Usa» è di «coprire questo progetto» con l’intervento militare che a parole si propone di combattere Isis «ma in realtà aiuta i terroristi».
L’accusa centrale è agli Usa: «Usano il terrorismo come una carta politica, prima con Al Qaeda in Afghanistan contro l’Urss e ora con Al-Nusra e Isis contro di noi». Russia e Iran invece «ci aiutano a combattere Isis» assieme all’Iraq «che ha problemi analoghi» e dunque l’Ue può unirsi alla nascente coalizione. Anche perché Assad promette «accordi con ogni forza politica» e «il rispetto di ogni etnia, curdi inclusi». Ovvero, non lascerà il potere «sotto pressione» ma è disposto ad alcune concessioni.
Truppe russe a Hama
A dare consistenza all’iniziativa politica di Putin e Assad c’è l’estensione della presenza russa in Siria. Fonti dell’opposizione descrivono ai media libanesi l’arrivo di «15 autobus di soldati» nel Club Equestre di Hama «trasformato in caserma» e di «10 autobus con esperti militari» all’hotel Al-Nawair, divenuto il loro quartier generale. Per il giornale «Al-Watan», filo-regime, «hanno consegnato 15 tonnellate di aiuti umanitari» ma l’opposizione ritiene che i russi vogliamo blindare Hama per impedirne la caduta nelle mani dei ribelli in arrivo da Nord.
Missili a Latakia
I militari russi sono arrivati a Hama da Latakia, dove stanno accumulando tank, blindati, artiglieria, radar e fanteria navale. Lavorano alla realizzazione di piste ed hangar per jet ed elicotteri che consentiranno operazioni aeree e terrestri. Jeffrey White, ex analista del Pentagono, prevede l’«imminente arrivo» di missili terra-aria SA-22 per proteggere i cieli. Fonti militari Usa ritengono che Putin stia accelerando i tempi per avere un «contingente credibile sul terreno» quando parlerà dal podio dell’Onu, a fine mese, presentandosi da leader dell’unica coalizione anti-Isis che dispone di contingenti di terra.
Netanyahu al Cremlino
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu la prossima settimana sarà al Cremlino per discutere con Putin «le minacce che ci vengono dall’incremento del flusso di armi sofisticate in Siria che possono finire nelle mani di Hezbollah ed altri gruppi terroristi». Israele chiede garanzie a Mosca che la nascente coalizione non rafforzerà i suoi nemici regionali. Per Putin significa poter dialogare sulla Siria tanto con l’Iran che con Israele. A conferma che l’intervento a Latakia, ancora nelle sue fasi iniziali, sta già cambiando la mappa strategica regionale.
Corriere 17.9.15
Il Cremlino offre agli Usa un’alleanza anti Isis
Una coalizione ampia e «alternativa» con un ruolo per Assad. Il leader russo pronto a parlarne all’Onu
di Massimo Gaggi
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK La sfida di Vladimir Putin è quella di promuovere una sorta di coalizione anti Isis diversa da quella messa in piedi da più di un anno dagli Stati Uniti: un’alleanza alternativa concepita anche come un modo per puntellare il regime di Assad. Il dubbio di Barack Obama è se continuare a ignorare il presidente russo per non intaccare la sua politica mirante ad isolare Mosca dopo l’aggressione all’Ucraina, o se approfittare della visita di Putin, che tornerà a New York per l’assemblea generale dell’Onu dopo un’assenza di dieci anni, per provare a riallacciare il dialogo almeno su alcune questioni di comune interesse: soprattutto la lotta contro il terrorismo che imperversa in Siria e ormai rappresenta una grossa minaccia anche per l’Occidente e la Russia.
I dubbi sono molti e i consiglieri della Casa Bianca sono divisi: secondo alcuni, viste le mosse spregiudicate che Putin continua a compiere, concedergli un vertice col presidente degli Stati Uniti può apparire un segno di debolezza e una sorta di rilegittimazione. Di più: significherebbe rimettere Mosca al centro del gioco diplomatico, almeno in Medio Oriente. E’ un rischio, certo, e Obama, che fin dal 2009 ha sempre avuto rapporti difficili col leader russo, preferirebbe evitare l’incontro, come ha fatto fin qui: da quando, nel 2013, cancellò un vertice al Cremlino dopo che Mosca aveva dato ospitalità a Edward Snowden, il «contractor» della Nsa che pubblicò molti documenti segreti, il presidente americano non ha più avuto summit col leader russo, salvo due incontri di pochi minuti a margine delle celebrazioni per l’anniversario dello sbarco in Normandia (giugno 2014) e al G20 australiano del novembre scorso.
Ma la sensazione è che stavolta un incontro a New York ci sarà, anche se non con la dignità di un vero vertice. Lo stesso portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, pur sottolineando che non è stata ancora presa alcuna decisione, nota che una discussione franca tra i due, un dialogo non tra amici ma tra «uomini d’affari», avrebbe una sua utilità. Ma parlarsi per cosa? Nel caso del negoziato nucleare con l’Iran, Mosca ha dimostrato che, in certe circostanze, può svolgere un ruolo costruttivo, dal punto di vista americano. La decisione finale dipenderà anche dal modo nel quale, nei prossimi giorni, Mosca articolerà la sua proposta di coalizione antiterrorismo. L’Isis è un nemico comune, ma Washington non può accettare la rilegittimazione di Assad che nella guerra civile ha massacrato il suo popolo. Ma fin qui la coalizione occidentale anti-Isis ha raccolto risultati scarsi coi suoi raid aerei, come emerge anche dal caso dei rapporti manipolati del Pentagono.
Nei prossimi giorni Obama sarà al centro di un «tourbillon» di incontri: col Papa, poi con il presidente cinese Xi Jinping, quindi la conferenza del Millennio e l’assemblea dell’Onu a New York dove arriveranno 190 capi di Stato e di governo. Il presidente potrebbe incontrare Raúl Castro, per la prima volta negli Usa dopo 53 anni, e, magari, il presidente iraniano Rouhani. Potrebbe starci anche un confronto «franco» col leader russo .
Corriere 17.9.15
Il grande gioco di Putin Perché è in Siria
Lo Zar si è mosso dopo gli allarmi degli 007: 1500 russi nello Stato Islamico Ora vuole evitare ad Assad la sorte di Gheddafi. E offrire una sponda a Obama
di Paolo Valentino
DAL NOSTRO INVIATO MOSCA Il tono delle informative è improvvisamente cambiato due mesi fa. I rapporti inviati al Cremlino dagli uomini del Gru (l’intelligence militare russa) stazionati in Siria, «si sono fatti via via più allarmati». L’avanzata dell’Isis è apparsa sempre meno contenibile dall’esercito di Assad, ormai ridotto al controllo di poco più di un quarto del territorio siriano. Le diserzioni tra i soldati di fede sunnita verso il califfato si sono intensificate. E soprattutto il rischio dello spill-over , la tracimazione del terrorismo islamico prima nelle regioni di confine e poi nel cuore della Federazione è apparso agli agenti di Mosca non più solo un’ipotesi remota. «Non è più un mistero che al momento nelle file dell’Isis combattano tra 800 e 1500 cittadini russi», mi dice una fonte governativa.
Bisogna avere ben presente questo elemento dell’equazione, per cercare di capire genesi e obiettivi dell’ultima mossa dello Zar, il build-up militare ordinato da Vladimir Putin a sostegno dell’antico alleato alawita, ormai vacillante.
«Noi appoggiamo il governo di Damasco nel contrastare l’aggressione terrorista dello Stato islamico. Forniamo e continueremo a fornire tutta l’assistenza tecnica militare necessaria. E sollecitiamo altri Paesi a unirsi a noi al più presto», ha detto Putin martedì, durante il vertice del Csto, l’organizzazione di sicurezza collettiva guidata dalla Russia, che raggruppa le Repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica.
In verità l’azione del Cremlino è più articolata del semplice sostegno al regime, il che motiva l’allarme generato nelle capitali occidentali e in particolare a Washington. Non solo la fornitura ai regolari siriani di sistemi d’arma avanzati, come i carri T-90 o i missili terra-aria Pantsir-S1, assistiti da alcune centinaia tra tecnici, consiglieri e soldati delle unità speciali. Ma anche un significativo rafforzamento della presenza navale russa sulla costa, a partire dalla storica base di Tartus. E non ultimo, novità assoluta, una serie di lavori preparatori a Latakia, in apparenza mirati a farne una futura base operativa per caccia ed elicotteri.
Gli analisti concordano che un intervento diretto russo non è in questa fase nell’agenda di Putin. «Mosca non è pronta a entrare nei combattimenti, anche se il rischio c’è e la situazione è così instabile che un episodio, come la morte violenta di consiglieri russi per mano dei terroristi, potrebbe fare da miccia», dice Fyodor Lukyanov, presidente del Council on Foreign and Defense Policy. Per Sergei Markov, esperto di politica estera legato al partito di Putin, «l’intervento diretto in Siria è improbabile. La maggioranza dei russi non lo vuole e poi aumenterebbe la pressione sul Cremlino a fare altrettanto in Donbass».
In realtà, puntellando Assad con aiuti militari, perfetta giustificazione per poter stanziare in Siria anche truppe speciali a protezione dell’arsenale, lo Zar centra allo stesso tempo l’obiettivo di ampliare e tenere aperte le sue opzioni: «In questo modo può aggiustare i termini e le modalità della sua presenza, in base all’evolvere della situazione, tenendo tutti sulla corda», spiega Olga Oliker, del Centro per la Russia e l’Eurasia della Rand Corporation.
Ma il punto vero, secondo Lukyanov, è un altro: «Putin non crede che la Siria come l’abbiamo conosciuta possa più essere salvata. La partizione è già un fatto. Così vuole assicurarsi un ruolo anche per il futuro, difendendo la maggior parte di territorio possibile per conto del suo alleato di sempre. Non permetterà che Assad cada, anche perché uscito lui di scena, della Siria non resterebbe nulla, solo caos violento. E non credo che neppure l’Occidente abbia interesse a un esito del genere».
Per una volta, smentendo la fama di giocatore d’azzardo, Vladimir Putin sembra quindi aver calcolato freddamente pro e contro della sua mossa. Ha giocato d’anticipo, mentre Francia e Stati Uniti stanno ancora valutando l’opzione militare, segnalando con chiarezza che è deciso a impedire in Siria uno scenario libico. Ma ha anche svelato un’ambizione più vasta, sia pure frutto di uno stato di necessità: «Putin vuole ampliare il contesto diplomatico e forzare Washington a un dialogo che vada oltre l’orizzonte ormai asfittico degli accordi di Minsk e dell’Ucraina, dove il conflitto è congelato. E magari puntare a un grande baratto», spiega Dmitrij Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, secondo il quale i russi stanno facendo di tutto perché a fine mese, durante l’Assemblea generale dell’Onu, i passi di Putin e di Obama si incrocino, se non per un incontro formale, almeno per un scambio di vedute.
Che la scommessa dello Zar riesca, è tutto da vedere. Ma è certo che, a differenza dell’Ucraina, nella partita siriana e nella lotta allo Stato islamico sunnita, Putin non è isolato e la sua non è una mossa avventuristica. Il pericolo di nuovi successi del califfato riguarda tutta la comunità internazionale. Lo scenario di una Siria del tutto liquefatta, con il corollario di nuove ondate di profughi, terrorizza i governi occidentali. Mentre l’accordo nucleare con l’Iran prelude all’aperto riconoscimento del ruolo decisivo di Teheran nella lotta contro lo Stato Islamico.
La Stampa 17.9.15
Duello a Westminster
Corbyn sfida Cameron: “Con me parla la gente”
di Alessandra Rizzo
Si dice che lo spazio tra i banchi del governo e quelli dell’opposizione nel parlamento britannico sia pari alla lunghezza di due spade sguainate, segno dei tempi che furono. Nel primo duello con il premier, il nuovo leader laburista, Jeremy Corbyn, non ha sfoderato la spada, anche se non è mancata qualche staffilata. Corbyn ha incalzato David Cameron con domande su welfare, servizio sanitario e caro-case suggeritegli dai suoi elettori, ma non ha sferrato nessun vero colpo nè inflitto ferite.
La prima uscita parlamentare di Corbyn era attesa con impazienza, il socialista anti-austerity contro il ricco e aristocratico primo ministro conservatore. I «bookmakers» accettavano addirittura scommesse sugli abiti che il neo-segretario avrebbe indossato: cravatta sì o no? Alla fine la cravatta Corbyn se l’è messa, ma ha lasciato da parte il tradizionale blu o grigio per tenere fede all’amato beige. Corbyn ha introdotto un tono pacato in un rito settimanale che è tanto un esercizio di democrazia quanto un teatrino che talvolta sfocia nel ridicolo: il «Prime Minister’s Questions», 30 minuti in cui il capo di governo si sottopone alle domande di opposizione e deputati tra applausi, risatine e mugugni di disapprovazione.
Corbyn aveva chiesto agli elettori di suggerirgli le domande: ne ha ricevute 40 mila e ne ha scelte sei. «Ho pensato di fare le cose in maniera diversa», ha detto, spiegando di voler rendere il «Question Time» un’occasione per dibattere i problemi reali del Paese. Così Marie e Steven chiedono del caro-affitti, Claire vuole risposte sul welfare, Angela sul sistema sanitario. Attraverso di loro, Corbyn ha attaccato le politiche di austerity del governo e i «tagli vergognosi» allo stato sociale. Ma nessuna domanda ha creato problemi a Cameron, che ha risposto a tono: «Solo con un’economia forte si può garantire un servizio sanitario forte». Il premier ha avuto vita facile nell’attaccare la politica estera e di difesa di Corbyn, che vuole smantellare il deterrente nucleare ed è tiepido su Nato e Ue.
In queste prime schermaglie Corbyn può comunque tirare un sospiro di sollievo: ne è uscito bene, dopo gaffe e decisioni controverse seguiti alla sua elezione a segretario del Labour. La composizione del governo ombra ha creato sconcerto: nessuna donna in posti di rilievo e, nel ruolo chiave di cancelliere, un socialista e vecchio amico, John McDonnell, che vorrebbe «rovesciare il capitalismo». Corbyn è stato inoltre criticato per non aver cantato l’inno nazionale durante le commemorazioni per la Battaglia d’Inghilterra. Un «silenzio rispettoso» secondo lui, una gaffe secondo quasi tutti gli altri.
Corriere 7.9.15
Il mito matriarcale
Nicholas Carter: Dionisiaca e crudele la dea bianca è musa e visione del mondo
di Claudio Magris
Il mito, è stato scritto, è ciò che non è mai accaduto e accade sempre. Nessuna creatura, divina o umana, è mai nata come Afrodite dalla spuma del mare e dai genitali dell’evirato Urano, ma l’infinito del cielo e del mare associati alla dea dell’amore dicono tante verità su quest’ultimo. Mito, afferma Valéry, è ciò che accade soltanto nella parola e solo questo gli conferisce verità che attraversa il tempo. Mito, in greco, vuol dire racconto; parla certo anche del mistero, ma del mistero che c’è nel vivere, innamorarsi, morire. Mistero di tutti, non occulto segreto di pochi custodito da pretesi iniziati né oscurità ineffabile, come pretende tanta cultura esoterica, spesso pacchiana. C’è stato pure un uso fascista del mito, che Mann o Broch — grandi autentici poeti del mito — volevano esorcizzare. Il mito ha bisogno dell’illuminismo e viceversa; altrimenti si ha soltanto uno pseudo arcano kitsch o una piatta e ottusa ragione strumentale.
Nel Novecento il mito è stato fondamentale per la letteratura, che ha trovato in esso le sue strutture profonde — basti pensare, per fare solo un esempio fra molti, a Joyce. Sono pure usciti molti libri che hanno rinarrato, interpretandoli, i miti — specie greci — costitutivi della nostra civiltà o di civiltà a noi prossime, facendoli «echeggiare di nuovo tra noi», come scrive Pietro Citati. I libri di Kerényi, di Calasso, di Guidorizzi, di Mascioni, di Graves (che insieme a Patai ha rinarrato pure quegli ebraici) e altri ancora.
Uno dei grandi mitografi del Novecento è Robert Graves, il celebre scrittore e poeta inglese noto soprattutto per i suoi romanzi storici — Io, Claudio (1934); Il divo Claudio (1934) — e grande specialmente come poeta. Quale mitologo, il suo capolavoro è forse La Dea Bianca (1948), vastissima e poetica summa che ricostruisce, analizza e interpreta una tradizione mitica che abbraccia soprattutto le divinità e i culti celti, gallesi e irlandesi, spingendosi sino all’Asia minore e più oltre ancora e celebrando il mito femminile, lunare, matriarcale e infero contrapposto a quello olimpico, virile, patriarcale, gerarchico. La Grande madre contro Zeus.
Ne parlo con uno dei più esperti interpreti e conoscitori di Graves, Nicholas Carter. Nato in Inghilterra nel 1942, cresciuto in Rhodesia e in Sudafrica dove ha studiato all’Università del Natal, prima di tornare in Inghilterra a diplomarsi all’Università di Oxford e di conseguire il Ph.D al famoso Trinity College di Dublino. È fra l’altro autore di una grande monografia su Graves. Nel 1986 è arrivato a Trieste, a insegnare inglese, e si è fermato; uno di quei nomadi che — come l’inglese Richard Burton o i fratelli Joyce — la storia ha depositato sulle spiagge di una città eterogenea cresciuta in un impero diverso da quello britannico.
«In questo libro, gli chiedo, Graves sembra assomigliare più a Mircea Eliade che a Kerényi o a Thomas Mann; sembra credere a una verità arcana ma oggettiva di questi miti, soprattutto celti. Una verità da prendere alla lettera come quella delle religioni, non una metafora poetica della vita, della natura e del mondo...».
Nicholas Carter — Nel suo romanzo La figlia di Omero , Nausicaa, che è il narratore, afferma, con una ferma convinzione che è pure di Graves, che non esiste alcuna vera vita aldilà di quella che conosciamo e che si svolge sotto il sole, la luna e le stelle. Ma una volta, mentre ero con lui nel suo giardino e lui mi insegnava come si deve diserbare, improvvisamente mi disse che avrebbe ricostruito a Colchester l’altare dell’imperatore Claudio. In senso metaforico, credevo pensando al progetto di un libro, ma lui — guardandomi direttamente negli occhi e lasciandomi spiazzato e incapace di replicare — mi disse: «Claudio, come lei sa, è un dio».
I miti mi hanno affascinato fin da quando avevo dieci anni e, trascurando le letture scolastiche, ho comperato i due volumi sui miti di Graves restandone sconcertato, perché non rinarravano solo le vicende a me care di Giasone o della guerra di Troia, ma nei commenti si addentravano nella storia e nell’antropologia, indagavano la società matriarcale a suo avviso originariamente dominante nel Mediterraneo e poi scalzata dai popoli patriarcali invasori. Più tardi ho capito che nel mito Graves cercava di rimpiazzare la civiltà distrutta dalla Prima guerra mondiale e cercava pure una salvezza personale, trovandola o credendo di trovarla nella Dea Bianca, che era insieme una visione del mondo e la sua Musa. Anche il suo Danubi o, del resto, ha un’analoga funzione unificante, risonanze che forse non esistevano prima del suo libro e che forse nascono dalla scrittura...
Claudio Magris — Certo, ogni nuova configurazione di qualsiasi realtà la cambia, la arricchisce; ogni commento al mito è mitico a sua volta ossia una nuova narrazione. Glissant mi ha detto una volta che ho fatto parlare l’inconscio del Danubio. Pure io da ragazzo ero affascinato dal mito, leggevo compilazioni e riassunti dei miti delle più diverse civiltà. Mi sono confrontato con i significati anche contraddittori del mito: idea-forza e/o verità essenziale, come nel mio Mito absburgico . In altri libri la struttura profonda è costituita da miti — di Euridice, di Alcesti, del Vello d’oro. La Dea Bianca celebra — contro la mitologia olimpica maschile — quella femminile e matriarcale; mi chiedo se tale civiltà sia mai veramente esistita. La Dea Bianca è anche il sesso che tutto abbraccia e annienta. Non la Grecia apollinea ma la Grecia e l’Asia dionisiaca, la notte, il grembo polimorfo di ogni vita. Questa Dea Bianca è tuttavia pure dominio crudele, soprattutto sessuale, della donna sull’uomo. Si può parlare di una sessualità masochista in Graves ?
Nicholas Carter — Posso rispondere con le parole dello stesso Graves, il quale diceva che, da quando aveva quindici anni, la passione determinante della sua vita era stata la poesia, in contrapposizione all’ambiente ostile della scuola. Certezza nella poesia significava incertezza nella vita, non meno di quanto lo sia l’amore romantico. Ed è qui che arriva, salvifica, la Dea madre di tutto ciò che vive e che sa pure incarnarsi in una donna mortale, Musa di cui il poeta si innamora perdutamente, benché consapevole di ciò che lo attende, dolore e tradimento. Come osserva Rougemont, «l’amore felice non ha storia».
Claudio Magris — Pure nella cultura tedesca nazisteggiante c’era una contrapposizione fra mito maschile — solare olimpico, dorico, gerarchico — e mito femminile in cui l’amore della madre non va particolarmente all’eroe, come nella visione dorica, ma egualmente a tutti i suoi figli, forti o deboli, però solo ai figli usciti dal suo stesso grembo, a tutti quelli dello stesso sangue, della stessa razza...
Nicholas Carter — Nessun albero ha una sola radice e le origini della Dea Bianca sono molteplici. Strettamente individuali — la forte personalità delle tre donne dominanti nella prima parte della sua vita, la madre tedesca, la sua prima moglie femminista e la sua prima vera Musa, la poetessa americana Laura Reading — e oggettive, lo choc della Prima guerra mondiale che aveva distrutto il suo mondo, mondo che egli voleva ricostruire col suo mito.
Claudio Magris — Dubito che la Dea Bianca potesse ricostruire il mondo distrutto dalla Grande guerra... La contestazione femminista del dominio maschile ha vagheggiato una politica femminile dell’amore anziché maschile della guerra. Ma se guardiamo agli ultimi decenni, i grandi leader sono stati soprattutto donne, ma donne che hanno esercitato con efficacia e durezza le classiche e odiate virtù maschili. Margaret Thatcher, Indira Ghandi o Golda Meir hanno saputo usare la forza, il potere, la gerarchia più dei politici uomini... Ma Graves ha scritto pure romanzi storici come quelli sull’imperatore Claudio, un genere molto frequentato nella narrativa. Basti pensare a quel capolavoro che sono le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, ma ci sono anche altri, ad esempio Gore Vidal. Che senso può avere oggi il romanzo storico e, per quanto riguarda Graves, come s’inquadra nella sua opera accanto agli altri generi da lui coltivati e soprattutto rispetto alla sua opera poetica, in cui egli ha raggiunto i suoi risultati più alti ?
Nicholas Carter — Dietro Io, Claudio , ci sono due figure molto diverse: il pro prozio di Graves, Leopold von Ranke — «il primo storico moderno», com’egli lo chiama, e la cui meta era «semplicemente accertare com’erano andate le cose» — e Maigret, l’eroe di uno degli scrittori da lui più amati, Simenon. Strana coppia, accomunata tuttavia da un’ostinata ricerca di verità e da un modo intuitivo di perseguirla. La Dea Bianca e Io, Claudio sono anche storie poliziesche, la cui esigenza di verità è la stessa del poeta. Che cosa sono i romanzi su Claudio, i libri più famosi di Graves, se non la testimonianza di un uomo bizzarro e spaiato, un folle che balbetta, un sopravvissuto di professione ma anche custode di salute spirituale e della verità, consapevole che «le cose, prima di migliorare, dovranno andare ancor peggio»? E cos’è La Dea Bianca se non una rappresentazione fantastica e baro cca della nostra civiltà distruttiva e suicida ? Tuttavia pure i poeti hanno bisogno di denaro per vivere e Graves ha risolto questo problema scrivendo romanzi storici: «I miei libri in prosa sono cani da esposizione che allevo e vendo per mantenere il mio gatto».
Traduzione di Mariagrazia Portera
Corriere 17.9.15
Saba aveva il gusto di provocare, anche di fronte a Togliatti
Caro Paolo Mieli, consideravo Saba una specie di nonno. Gli volevo bene anche osservando la considerazione e la premura con cui lo trattavano i miei genitori quando, nell’immediato dopoguerra, fu a lungo ospite in casa nostra. Volevo allora aggiungere, dopo aver letto il tuo coinvolgente articolo Ebrei nemici degli ebrei , una mia testimonianza. Sento di doverla al grande poeta e ancora più grande prosatore che è stato Saba.
Sapendo che mio padre Giacomo, cui è dedicata la Storia e cronistoria del Canzoniere , aveva scritto una serie di conferenze sui profeti, un giorno gli disse, anzi gli sparò in pieno petto queste parole: «I profeti portano sciagura». Era quello il modo, tipicamente sabiano, di provocare per essere poi perdonato e sentirsi dunque nel perdono più amato.
Ancora. Una sera, a casa dei miei genitori, Saba si trovò in compagnia di Togliatti. Anziché rendergli omaggio, come altri convitati, il poeta del Canzoniere gli si avvicinò recitandogli una sua poesia sulle mani della Duchessa d’Aosta. Gelo in sala. Togliatti, divertito, conquistò viceversa Umberto tenendogli una lezione sulla casata sabauda. Ho riportato l’episodio nel mio libro Giacomino , nato anch’esso da un sabiano desiderio (non capito da taluni amici troppo amici o troppo nemici, non so) d’essere perdonato del mio eccessivo amore per il padre.
Di personale posso aggiungere che venendomi a prendere a scuola, nell’immediato dopoguerra, un giorno Saba mi disse: «Ricordati, stupidello, tutto ciò che è nero è cattivo. I preti, i fascisti».
Sapeva che io, cattolico di religione per volontà di mia madre di antica famiglia cattolica, passavo ogni sera mezz’ora (lo faccio ancora adesso, arrabbiandomi con me stesso) inginocchiato a pregare. Mi provocava perché mi voleva bene, andavamo insieme a Testaccio e mi comprava cartocci di olive perché Giacomo (mio padre) non voleva che mangiassi le olive. L’ebraicità è un privilegio che si sconta vivendo.
A proposito dei mezzi ebrei, come lo era Saba e lo sei anche tu, posso anche aggiungerti, caro Paolo, che Umberto diceva: «I mezzi ebrei sono due volte ebrei perché si vedono essere ebrei». Io, in queste parole che ho trascritto nel mio Giacomino , mi ci riconosco. E tu? Spero di sì. Con affetto.
La Stampa 17.9.15
Il governo: “Salveremo il carcere di Ventotene”
Dopo la denuncia della Stampa, Franceschini: interveniamo subito coi fondi del ministero contro il crollo
di Jacopo Iacoboni
Il governo si muove. Il ministero dei beni culturali stanzierà dei soldi, subito, per evitare crolli. E subito dopo attiverà una procedura di recupero e restauro vera. Ma andiamo con ordine.
Dopo l’articolo della Stampa sul carcere borbonico di Santo Stefano - davanti all’isola di Ventotene - monumento storico della prigionia di grandi antifascisti italiani, che rischia di crollare a pezzi nell’incuria e nel degrado, Dario Franceschini ha avviato due passi importanti, che prima non s’erano mai fatti e meritano di essere riferiti. La Stampa è venuta a conoscenza d una lettera, scritta dal ministro dei beni culturali e indirizzata al direttore dell’Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, al sindaco di Roma, Ignazio Marino, al governatore Nicola Zingaretti. Franceschini chiede un incontro per far partire un tavolo tecnico al ministero, giovedì 29. Ma c’è di più: spiega loro di essere pronto a stanziare da subito i soldi per scongiurare al più presto il rischio di crollo.
Quando gli chiediamo conferma di questa notizia ci spiega: «Conoscevamo bene la storia del carcere e del suo stato, ma nessuno finora era riuscito a fare niente di operativo, questo bisogna ammetterlo con franchezza. Ora vogliamo intervenire davvero. La prima cosa che facciamo subito, con i fondi ordinari del mio ministero, è intervenire per evitare che crolli, e per mettere in sicurezza tutta l’area. Poi naturalmente si pongono altri due problemi, e qui i fondi dei Beni culturali non bastano più. Il primo problema è come reperire le risorse: noi abbiamo aperto una procedura perché il carcere, che è patrimonio nazionale e patrimonio artistico riconosciuto dall’Unione europea, sia inserito nel programma dei Fondi di sviluppo dell’Unione europea». Ci mancherebbe, gli osserviamo, che il carcere dove furono detenuti tra gli altri Sandro Pertini e Umberto Terracini, e dove fu “suicidato” l’anarchico Gaetano Bresci, davanti all’isola dove fu confinato Altiero Spinelli, non sia percepito in Europa come un problema fondante della nostra identità culturale e anche politica.
Sull’isola fanno una stima sommaria del costo complessivo degli interventi intorno ai 35-40 milioni, ma Franceschini non dà cifre. Si procederà passo passo. «C’è il problema, come raccontavate, che i terreni intorno sono di proprietà di un privato, che non pare tanto orientato a vendere, o almeno così ci ha detto il sindaco dell’isola. Ma è un problema secondario, col privato si tratta, per un acquisto, una servitù di passaggio, o al limite si espropria». Il secondo problema è il piano complessivo: «Decidere la destinazione del carcere. Una destinazione turistica è assai improbabile, non è luogo dove si possa fare un albergo, o cose del genere. Ma noi vogliamo restaurare e recuperare comunque, per il valore enorme del bene in sé: e per far questo il passo successivo sarebbe cercare di attrarre anche capitali privati».
Il Demanio non sarebbe neanche contrario a conferire la proprietà del carcere ai Beni culturali, ma il punto - di chiunque sia la proprietà - è non far morire o cadere a pezzi il monumento. Per questo la tempistica a tre passaggi indicata dai Beni Culturali è abbastanza chiara. Noi naturalmente la verificheremo nel tempo. Sia Marino sia Zingaretti hanno promesso appoggio; Zingaretti durante l’assemblea del Pd aveva scritto un sms al ministro interessandolo anche lui a Ventotene. Il posto dove siamo nati, se non possiamo non dirci europei mentre mezzo mondo strepita di no euro.
La Stampa 17.9.15
Lo sceicco del Qatar compra per 222 milioni l’hotel della Dolce Vita
L’Excelsior, il mitico hotel delle star, dei paparazzi e della «Dolce Vita» è stato venduto. A comprare il celebre albergo di lusso, che ha fatto da sfondo al film di Fellini, è stata la Katara, multinazionale del Qatar guidata dallo sceicco Nawaf Bin Jassim Bin Jabor Al-Thani. Lo sceicco ha sborsato la cifra record di 222 milioni di euro. Ma la sua non è stata un’operazione nostalgia. Nessun Amarcord, solo business. «È una grande opportunità economica, si tratta di un grande investimento, siamo molto attenti nelle nostre scelte e ci basiamo sul degli investimenti - spiega lo sceicco - ci attendiamo che questo nei prossimi anni cresca molto perché il Westin Excelsior rappresenta tutto ciò che cerchiamo in un hotel con il suo aspetto maestoso e l’eccellenza dell’hotellerie di lusso». L’Excelsior offre infatti 316 stanze, di cui 35 suite, due ristoranti, un bar, un centro benessere, un fitness center, una piscina coperta e diverse sale convegni.
Situato a metà della storica Via Veneto a Roma con il suo inconfondibile stile liberty dal 1906 fa da sfondo alle vacanze di turisti facoltosi, viaggi di lavoro di uomini d’affari e visite di capi di Stato. I nuovi proprietari, che negli ultimi anni stanno comprando hotel di lusso in giro per il mondo, hanno già annunciato che l’albergo sarà rinnovato ma che «sarà mantenuto lo stesso stile: le stanze saranno più smart in termini di tecnologia e facili da usare». L’obiettivo dell’azienda è infatti «riportare l’hotel alla sua gloria, combinando il suo ricco retaggio con tutti i servizi moderni di un hotel del ventunesimo secolo».
Per Katara, che ha comprato la proprietà da un’altra multinazionale del settore come Starwood Hotel a cui resterà la gestione, si tratta della terza acquisizione italiana dopo altri nomi di prestigio come l’Intercontinental De La Ville a Roma e l’Excelsior Gallia a Milano. E non è escluso che questa lista sia destinata a allungarsi, perché l’obiettivo della compagnia è quello di arrivare dai 35 hotel di lusso attuali a 60 nel 2030.
[r.e.]