venerdì 11 settembre 2015

La Stampa 11.9.15
Le frontiere e la corsa all’indietro
di Roberto Toscano


L’Europa riscopre le frontiere. Frontiere da chiudere, da pattugliare con la polizia e se necessario l’esercito. Per tenere fuori gli indesiderati, per fermare un flusso umano percepito come minaccioso e incontrollabile. E se è poco sorprendente che lo faccia l’Ungheria, con il suo governo nazionalista e xenofobo, colpisce che anche la civilissima Austria e l’evoluta Danimarca stiano applicando misure di controllo e blocco che da tempo non si erano viste.
Che cosa sta succedendo? I migranti, certo, ma non solo. Ci piacerebbe poter attribuire il fenomeno a un solo fattore: l’emergenza migranti, un’emergenza che forse, grazie soprattutto alla coraggiosa svolta di Angela Merkel, in qualche modo riusciremo a gestire.
In realtà la riscoperta delle frontiere si spiega con qualcosa di più ampio, più profondo e anche più preoccupante.
Essa è il prodotto di una catena di sconfitte e soprattutto del fallimento di quella che si era sperato potesse essere una positiva evoluzione epocale nelle relazioni internazionali.
Vi ricordate i «dividendi della pace» attesi alla fine della Guerra Fredda? E l’impegno per gli «interventi umanitari» contro genocidi e repressioni? E che dire della «Primavera araba», quando si era creduto che un’inarrestabile ondata di democrazia spazzasse via, in tutto il Medio Oriente, sia dittatori che terroristi?
Troppo facile dire ora che si trattava solo di illusioni. Erano progetti degni in sé di essere perseguiti, ma che sono falliti per una serie di micidiali errori. Sarebbe poi ingiustificato sostenere che realismo significhi solo accettare lo status quo e le sue brutture sociali e morali, tanto più che, in un mondo che cambia a ritmi vertiginosi, l’idea che lo status quo possa essere protratto indefinitamente è la più patetica delle illusioni.
Quello che è oggi indiscutibile è che la fine del XX secolo e l’inizio del XXI sono segnati, assieme al fallimento di quelle speranze, da una serie di crisi e destabilizzazioni che producono sconcerto e paura.
La cosiddetta «comunità internazionale» rivela sempre più la sua inconsistenza di fronte a problemi e minacce che si sommano invece di alternarsi in una sequenza.
E’ vero che, vista l’innegabile natura globale dei problemi, solo una risposta globale può avere un senso. Ma se la risposta non arriva, se la risposta è solo retorica, è inevitabile che si scateni una corsa all’indietro: verso la chiusura, le frontiere, le identità antagoniste, la caduta della solidarietà. Chiamarsi fuori, salvarsi da soli.
Quando si avvicina il lupo, il porcellino saggio si chiude nella sua casa di pietra.
Inoltre lo Stato-nazione è palesemente inadeguato, ma rimane l’unico vero contesto in cui la volontà dei cittadini possa tradursi in decisioni politiche. Nel momento quindi in cui non possiamo se non denunciare le chiusure, gli egoismi e l’irreale progetto di ricostituire una sovranità non solo storicamente superata, ma insostenibile, siamo però obbligati a fornire, in alternativa concreta a un’inquietante regressione, una credibile ipotesi di avanzamento.
Si rivela qui tutta la pochezza di una classe politica che, prese le distanze non solo delle ideologie, ma dagli ideali, ovunque naviga a vista senza progettualità e con un orizzonte a breve che coincide con le scadenze elettorali.
E’ ormai evidente che l’attuale crisi dei rifugiati costituisce un cruciale terreno di prova dello stesso futuro dell’Europa, ed è proprio l’attuale traumatico ritorno delle frontiere a dimostrarlo. Il progetto europeo è nato non per abolire le frontiere in un poco possibile e poco auspicabile Super-Stato, ma per trasformarle da muri di divisione in punti di contatto permeabili sia per il commercio che per le finanze che per le persone. L’estate del 2015 sarà ricordata come quella di una doppia sfida: la sfida all’euro in relazione alla crisi greca e quella a Schengen prodotta dalla crisi dei rifugiati. Non è ancora chiaro se la risposta ad entrambe le sfide si rivelerà adeguata e soprattutto compatibile con il progetto europeo.
Va detto comunque che, se avanzare nel processo di integrazione ed apertura è problematico, l’ipotesi opposta – quella della chiusura, della ri-nazionalizzazione e dell’assoluta sovranità nazionale – è illusoria.
Inoltre, se la frontiera recupera il suo valore di baluardo e barriera, diventerà sempre più importante, anzi vitale, definire o ridefinire il suo tracciato. Se tutto dipende dalla sovranità territoriale, allora dobbiamo prepararci all’aumento dei progetti di revisione territoriale e anche di frammentazione degli Stati esistenti.
Ma dove si ferma la chiusura, la caduta della solidarietà, la ricerca di omogeneità culturale e sociale?
Si parla spesso, per il Medio Oriente e per l’Africa, di «frontiere artificiali». Dato che non esistono «frontiere naturali» ma solo politiche, non si vede come evitare che le singole regioni cerchino, di fronte alle crisi e alle paure collettive, di distinguersi e di costituirsi in entità politiche separate all’interno di propri confini.
Se l’Europa si dimostrerà incapace di gestire fenomeni come le migrazioni, ma anche il terrorismo, i problemi dell’economia e quelli dell’ambiente – il pericolo che il suo processo integrativo non solo si blocchi, ma si inverta è purtroppo del tutto reale.