lunedì 7 settembre 2015

Il Sole 7.9.15
In due anni più «cittadini» che «clandestini»
di Gian Carlo Blangiardo


«A fronte dei 213mila stranieri sbarcati in Italia nel biennio 2013-2014, ve ne sono ben 231mila che, nello stesso arco temporale, sono approdati alla cittadinanza italiana». Ecco un’anticipazione dal XXI Rapporto Ismu 2015 – disponibile tra un paio di mesi – che andrebbe immortalata con uno slogan a effetto: più “cittadini” che “clandestini”.
Magari ricordando altresì come tutto questo sia avvenuto senza che le infinite discussioni sulla necessità di cambiare la legge 91 del 1992 abbiano mai prodotto alcun effetto concreto.
Si tratta di una ritrovata efficienza da parte della moribonda legge o, più razionalmente, è solo la conferma della progressiva “maturazione” di una componente straniera che, avendo un’anzianità di presenza piuttosto consistente, ha sempre più spesso titolo per richiedere la naturalizzazione? È chiaro che la risposta esatta è quest’ultima.
Ma un legittimo stupore continua a persistere. In fondo, ci avevano detto che erano gli altri – per esempio i tedeschi o i francesi – quelli che avevano leggi sulla cittadinanza “moderne”, ma ora scopriamo che Francia e Germania hanno avuto, rispetto a noi, quasi lo stesso numero assoluto di acquisizioni e persino un’incidenza, per ogni 100 stranieri, inferiore alla nostra.
Certo, non che questo assolva la legge 91 dai suoi limiti oggettivi, ma almeno non la criminalizza. Anche perché spesso nel contestarne alcuni effetti, specie riguardo allo spinoso tema dei minori legati al destino dei propri genitori, ci si dimentica di ricordare che l’attuale legge rispecchia un’ispirazione di tipo “familiare”, secondo cui un minorenne che è a carico di qualcuno (usualmente i/il genitori/e) ne condivide i vincoli, le scelte e le condizioni di vita (la parentela, la casa, il benessere o la povertà, e così via); perché dunque non la cittadinanza? Almeno fino a quando, da maggiorenne, sarà egli stesso a poter decidere in piena autonomia.
D’altra parte, non è certamente un caso che la legge 91 preveda (articolo14) che «i figli minori conviventi con chi acquista la cittadinanza la acquistano a loro volta». In tal senso è illuminante notare come nel periodo 2008-2013 circa un nuovo italiano ogni quattro (24,2%) fosse in età inferiore ai 15 anni.
E ancora, se confrontiamo il numero dei minori residenti in Italia per età al 1° gennaio e al 31 dicembre del 2014 è facile rendersi conto che, se prendiamo i soli stranieri, coloro che a fine anno sono in età 6 risultano assai meno di quelli che al 1° gennaio erano in età 5.
Viceversa, se prendiamo i coetanei con cittadinanza italiana lo stesso confronto segnala una variazione pressoché analoga ma di segno opposto. E tale compensazione, tra stranieri in meno e italiani in più, è ricorrente in corrispondenza di tutte le età della prima infanzia, a dimostrazione di un flusso di minori stranieri che sono stati indirettamente “italianizzati” dall’impostazione familiare dell’attuale legge.
In conclusione non è affatto azzardato ipotizzare che tra i 130mila nuovi italiani conteggiati nel 2014 vi sia un cospicuo numero di minori che hanno acquisito la cittadinanza con logiche di tipo familiare e un appunto da muovere a questa riforma - che pur ha il merito di volere intervenire sul tema delle seconde generazioni - è proprio l’abbandono di un tale approccio. Potrebbe infatti determinarsi il paradosso di genitori stranieri che, pur non cambiando cittadinanza, avrebbero un bambino di altra nazionalità dopo cinque anni dalla sua nascita.
Più ragionevole sarebbe poter conferire al figlio la doppia nazionalità subito per nascita, ma con valenza limitata nel tempo; dandogli poi la possibilità di decidere, al raggiungimento della maggiore età, con quale delle due cittadinanze vivere il proprio futuro da adulto.