il manifesto 29.9.15
Il coraggio di una donna gentile
Lucia Ottobrini, una delle "quattro ragazze" dei Gruppi d'Azione Patriottica
Lucia Ottobrini
di Davide Conti
Delle «quattro ragazze» dei Gruppi d’Azione Patriottica, Lucia Ottobrini è stata certamente quella dal carattere più riservato. Rispetto alla Maria Teresa Regard corrispondente dal Vietnam, alla «ragazza di via Orazio» Marisa Musu, o al «cuore di donna» di Carla Capponi la sua è stata una personalità tanto più austera quanto straordinaria.
Lucia è morta sabato scorso a Rocca di Papa mentre nella sede di via dei Giubbonari a Roma suo marito Mario Fiorentini ritirava per il settantesimo anno consecutivo la «tessera del Partito» per entrambi. Tra le sue carte conservate, con quelle dei Gap di Roma presso l’Archivio Storico del Senato, si possono trovare tante tracce di una vita vissuta in modo pieno ma intimo. Una foto con la dedica di amicizia e ringraziamento scrittale da Ho Chi Min, il racconto dei suoi nove mesi di lotta partigiana, le impressioni tragiche su un paese sommerso dalle macerie materiali e storiche del regime fascista
Nel settembre 1943, a 19 anni, Lucia Ottobrini entra in clandestinità con i falsi nomi di Leda Lamberti e Maria Fiori, percorrendo per intero la strada della lotta armata e della Liberazione di Roma nella stessa formazione, il Gap “Antonio Gramsci”, fondata da quello che sarebbe diventato e rimasto per 70 anni il marito, Mario Fiorentini.
Ripeteva sempre che quello rappresentò il suo «incontro col destino» perché racchiuse in un groviglio inestricabile le emozioni e le paure della guerra; l’incontro con il «Partito»; la sua «presa di parola» di donna e l’amore vissuto ogni giorno come fosse l’ultimo.
Nella Roma occupata non si risparmiò mai, lei cattolica-comunista, negli attacchi militari contro i nazisti: il 18 dicembre 1943 con Fiorentini, Carla Capponi e Rosario Bentivegna collocò una bomba al cinema Barberini che uccise 8 soldati tedeschi, il 10 marzo 1944 con un’azione contro un corteo fascista sbaragliò il battaglione «Onore e Combattimento». Dopo sette mesi di guerriglia urbana nella capitale venne inviata dal Pci a Tivoli. Nulla era umanamente più distante da lei della retorica celebrativa, il suo racconto della fine della guerra non parla di sfilate nelle piazze né di eroismi, restituendo l’immagine di come il fascismo aveva ridotto l’Italia: «Stavamo a Tivoli quando arrivò la Liberazione di Roma, dalla finestra vedevo la gente che tornava alla vita. Uscivano dalle caverne con materassi in testa, coperte, vestiti. Guardando tutta quella miseria umana mi feci un pianto amaro». Sorrideva con ironica grazia alla lettura della motivazione della medaglia d’argento al valor militare conferitale alla fine della guerra. Vi si legge, nel goffo linguaggio militaresco, che ha combattuto con «coraggio virile», lei che rappresentava la dolcezza delle sensibilità di donna incarnando, con la sua storia personale, il valore dell’emancipazione.
La saluteremo questa mattina, martedì 29 settembre 2015, nella basilica di Sant’Andrea delle Fratte.