martedì 29 settembre 2015

il manifesto 29.9.15
Un vuoto pesante, eredità per l’Europa
XX Secolo. Rilettura degli scritti che annunciavano un nuovo periodo storico nel mondo gravido di contraddizioni e conflitti come mai nel passato
Profondità sociale e dimensione globale di un leader della sinistra continentale che non si è mai stancato di opporre il superamento critico del presente
Mentre nasceva la "cultura della stabilità" che rielaborava restrittivamente il riformismo socialdemocratico
La radicalità del pensiero che ci aiuta a uscire dall’imbuto della crisi profonda che stiamo vivendo
di Leonardo Paggi

Di Pietro Ingrao come uomo e come intellettuale, come politico e persino come poeta, abbiamo già parlato in occasione dei suoi cento anni. La sua morte ci chiama ora a pensieri più ardui che oltre la persona mettono in causa la storia, così aspra e contraddittoria, del nostro Paese. Ci sentiamo spinti inevitabilmente a bilanci difficili, a domande sul passato che non possono non essere anche interrogazioni sul futuro.
Quella di Ingrao è una bara pesante. In essa c’è in primo luogo racchiuso un enorme patrimonio di lotte e di sacrifici del popolo italiano che se non hanno realizzato il socialismo hanno cambiato la faccia del nostro Paese, rendendolo immensamente più civile e più dignitoso. Una grande esperienza collettiva, che Ingrao ha voluto fino in fondo ricordare e rappresentare anche simbolicamente, con quella sua tenace volontà di mantenere il pugno alzato, persino quando il corpo piegato dagli anni cominciava ad abbandonarlo. Quel gesto elementare non era vuota liturgia; intendeva piuttosto riproporre al popolo, come agli intellettuali, il rigetto di ogni presunta fatalità della storia, inteso non solo come atto di volontà, ma come forma obbligata di qualsiasi abitazione intelligente del mondo. Al “disincanto” weberiano con cui tanti intellettuali italiani sono rientrati come veri abatini nel conformismo dell’ordine, Ingrao non si è mai stancato di opporre la trascendenza critica del presente come espressione necessaria di una ragione ragionante degna di questo nome.
L’esercizio di questa ragione è più importante che mai. La bara di Ingrao ci ripropone anche l’obbligo di cimentarsi senza mezze misure con quel drammatico rovesciamento dei rapporti di forza che comincia a profilarsi nel nostro Paese, come nel resto di Europa, sullo scorcio del XX secolo, a proposito del quale autori di tradizione socialdemocratica parlano oggi di post democrazia. Mi riferisco alla svolta che si produce nel continente tra il 1989 e il 1992, con la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica, la riunificazione della Germania e la firma del Trattato di Maastricht, che con la moneta senza stato e la piena libertà di movimento dei capitali prefigura l’Europa di oggi, flagellata, senza difese, dai marosi della crisi.
E’ lo spazio temporale in cui si inserisce l’ultima battaglia di Ingrao. Ripercorrendo i suoi scritti colpisce la tenacia con cui si batte contro l’idea, allora senso comune, della fine della storia; quella stessa che viene messa alla base dell’8 settembre, del «tutti a casa», del Pci. Non sono analisi compiute e formalmente concluse, le sue, ma netta vi è la consapevolezza che un nuovo periodo della storia del mondo si sta annunciando, gravido di contraddizioni e conflitti superiori a quelli del passato, sia per profondità sociale che per dimensione globale. Insomma non è un caso che nel suo comunicato Tsipras abbia parlato di Ingrao come di un leader della sinistra europea.
In quegli stessi anni la tradizione liberaldemocratica italiana elabora con la nozione di “cultura della stabilità” una reinterpretazione singolarmente restrittiva del riformismo socialdemocratico. La scienza economica, nata e cresciuta come indagine sulla produzione della ricchezza e sulla sua distribuzione tra le classi sociali in conflitto, diventa moneta e finanza, ossia scienza del rientro dal debito, che i tedeschi hanno posto come condizione perentoria per l’abbandono del marco. La stabilità dei prezzi che il Modell Deutschland è riuscito a realizzare diventa motivo di una ammirazione subalterna. I “parametri” di Maastricht, che pongono limiti sempre crescenti al sostegno della domanda interna, aprendo la strada alla stagnazione di oggi, sono invocati come salutare «vincolo esterno» capace di mettere a norma una classe politica spendacciona. Per quanto riguarda la “questione tedesca” il limite profondo di questo riformismo liberista sta nel non vedere come dietro la virtuosa stabilità dei prezzi ci sia un’economia che, dopo aver potenziato ininterrottamente la sua forza competitiva in termini di qualità e di prezzo, si appresta a lanciare un nuovo assalto ai mercati mondiali, aggiogando al suo carro tutto il progetto europeo.
Oggi che le politiche di austerità si intrecciano con una esplicita deflazione del sistema della rappresentazione politica, sentiamo che tutta la cultura democratica del Paese è giunta a un punto serio di verifica. Sentiamo che l’enorme patrimonio storico simbolicamente racchiuso nella figura di Pietro Ingrao può essere salvato solo attraverso la sua trasmissione e la sua traduzione in un contesto sociale completamente mutato. Per uscire dall’imbuto della crisi organica che stiamo vivendo è indispensabile anche uno sforzo di pensiero, una nuova radicalità nelle analisi. L’esperienza storica ci dice che da una crisi organica si esce solo con la formazione di una nuova classe dirigente. «Si parla di capitani senza esercito – scriveva Gramsci nel carcere– ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». La natura della fase che stiamo vivendo, oltre che la personalità di Ingrao a cui diamo l’estremo saluto, ci fa capire oggi meglio di prima la congruità di questa affermazione.