martedì 8 settembre 2015

Corriere 8.9.15
Se Gitai allarga lo sguardo cinematografico
di P. Me.


Sono passati vent’anni dall’uccisione di Yitzhak Rabin ma le prospettive di pace tra ebrei e palestinesi invece di crescere sono peggiorate. Per questo il regista israeliano Amos Gitai ha voluto tornare su quel momento con Rabin, the Last Day ( Rabin, l’ultimo giorno ) per ricostruire la campagna di odio che cambiò il corso degli eventi nel suo Paese. Per farlo, mette in scena le sedute della commissione d’inchiesta che deve scoprire le falle nel comportamento della Polizia e dei Servizi ma finisce inevitabilmente per allargare lo sguardo su chi, nella destra politica (allora guidata dall’attuale primo ministro Netanyahu) e nell’estremismo rabbinico, vedeva nei patti di Oslo la fine di Israele e in chi li aveva firmati un «satana nazista». Tanto da armare la mano di un colono ultra-osservante. Per arrivare alla fine, come fa uno dei membri della Commissione, a mettere in discussione la semplice evidenza dei fatti, incapaci di spiegare quello che avvenne se non all’interno di un più ampio quadro di riferimento. Proprio come fa il cinema — sembra suggerirci — che con la sua forza sa «superare» e «unire» le singole scene in un tutto unificante.
Anche il Sudafrica che Oliver Hermanus ci mostra in The Endless River ( Il fiume senza fine ) è un Paese duro e violento: la moglie e i due figli di un francese che vi si è trasferito per lavoro sono massacrati in una notte di violenza. E uno dei possibili sospetti, marito scioperato appena uscito di prigione, viene trovato morto dopo essere stato investito da un’auto. La tragedia finisce per avvicinare i due sopravvissuti, lui bianco sradicato lei nera e indifesa, che forse trovano l’uno nell’altra la forza per ricominciare. Ma un giorno la donna inizia a sospettare che ad avere ucciso suo marito (che si è saputo non essere responsabile del massacro) sia stato proprio l’uomo con cui sta cercando di dimenticare il passato.
La scelta del regista
è quella di seguire due percorsi di dolore e di solitudine senza dare alcun elemento risolutivo.
Ma dopo aver scavato nelle debolezze e nelle fragilità dei due protagonisti senza preoccuparsi della trama gialla, abbandona lo spettatore nel buio con cui chiude all’improvviso il film, con una radicalità che lascia troppe domande in sospeso e assomiglia a una «trovata» di sceneggiatura più che a una necessità narrativa.
Finendo per annullare quello che di buono aveva messo in mostra fino ad allora.