lunedì 7 settembre 2015

Corriere 7.9.15
Un libro sul genocidio del 1994
La strage, la memoria, il dolore. Il Ruanda visto da dentro
di Martcello Flores


Le grandi tragedie hanno sempre spinto i migliori giornalisti e reporter a misurarsi con la loro enormità e il genocidio del Ruanda non ha fatto eccezione. Si può dire che sono stati dei reportage giornalistici a far conoscere meglio e ovunque — insieme ad alcune testimonianze terribili e belle — i massacri che dall’aprile del 1994, nel giro di pochi mesi, uccisero circa un milione di persone. Chi ha letto molto delle centinaia di libri e articoli che sono stati scritti sul Ruanda, pensava che difficilmente si sarebbe potuto ancora aggiungere qualcosa, anche se i genocidi del passato ci hanno mostrato quanto possa essere lunga l’onda delle testimonianze, delle memorie, delle analisi.
Il libro del reporter polacco Wojciech L. Tochman Oggi disegneremo la morte , tradotto in italiano dall’editore Keller, mostra quanto l’abilità professionale, una curiosità attenta, un’empatia solida ma non acritica, una capacità letteraria non comune possano produrre un libro nuovo e originale, informato e capace di emozionare e comprendere le contraddizioni di un presente che ci è ormai lontano e ignoto (quello del Ruanda vent’anni dopo il genocidio). È un libro straordinario, capace di entrare nella memoria dei sopravvissuti, delle vittime e dei carnefici, dei testimoni impauriti o compiacenti di quella che è stata la tragedia collettiva più spaventosa degli ultimi decenni. Capace di farci capire cosa possa significare attendere ancora giustizia dopo vent’anni, ricordare senza timori solo una volta all’anno (nell’anniversario del genocidio) e poi cercare di vivere in un presente senza più razze e discriminazioni (ci sono solo cittadini ruandesi oggi, guai a parlare di tutsi o hutu, se non nei giorni di aprile), ma non poter evitare di riconoscere il massacratore di tua madre, di tuo padre, dei tuoi fratelli, che vive poche strade lontano da te. Capace di raccontare lo strazio di una giustizia originale (tradizionale e nuova al tempo stesso), quella delle corti gacaca , dove puoi vedere gli assassini intrattenersi amichevolmente coi giudici o puoi riuscire a mandare all’ergastolo il tuo stupratore che si sentiva ormai immune da ogni giustizia.
Il libro di Tochman, che si fonda soprattutto sulle testimonianze degli orfani sopravvissuti e delle donne stuprate e martoriate con una violenza inimmaginabile (chi è sopravvissuta ha in genere preso l’Aids, e in poche hanno avuto la possibilità di curarsi), è una memoria di come il corpo possa essere violato nei modi più terribili, per colpire gli «scarafaggi» tutsi che si vogliono sterminare, ma anche per terrorizzare i loro parenti o chi volesse difenderli tra gli hutu ancora capaci di sentimenti umani (e non furono pochi).
Tochman s’interroga continuamente sul modo in cui parlare, interrogare, far affiorare i ricordi, accettare i silenzi e i dinieghi di persone il cui racconto, quando riesce a farsi parola, ci reimmette, con una verità brutale e semplice, nella realtà di un genocidio di cui ancora ignoriamo troppo, timorosi di scendere fino in fondo all’abisso di cui l’Occidente è stato particolarmente responsabile. È un libro da leggere, da far leggere nelle scuole. E andrebbe costretto a leggerlo chi ancora predica l’odio per l’altro, il diverso, il nemico.