giovedì 24 settembre 2015

Corriere 24.9.15
Mille schegge di memoria Fago alla ricerca delle radici


Il titolo, Pouilles. Le ceneri di Taranto , lasciava presagire un altro monologo su una disgrazia italiana. Il nome dell’autore era tutt’altra cosa. Strano, mi dicevo, che Amedeo Fago abbia scritto sul criminale inquinamento della città pugliese. Ma potrei fare finta di niente? potrei non vederlo? No, per due motivi: quello sentimentale era che Fago aveva lavorato come scenografo nei primi tre film di uno dei miei amici più cari, Emidio Greco — che dal dicembre 2012 non c’è più; quello artistico risale al 1978, quando il suo quasi debutto come autore e regista, Risotto , divenne un successo prima romano, poi italiano, infine mondiale.
Pouilles è nato in Francia, una produzione per la Maison de la Culture de La Seine-Sainte-Denis, e approda al Vascello di Roma per le Vie dei festival: purtroppo in replica unica, la sera in cui andava in scena all’Argentina Milite ignoto di Mario Perrotta, anch’esso in replica unica. Non mi sono scoraggiato. Sono riuscito a vedere Pouilles nella prova generale del pomeriggio: uno spettacolo tutto diverso da Risotto , ma anche dalle supposizioni nate dal titolo. È l’autore a dire come esso sia maturato nel corso degli anni. Cominciò a pensarci quando volle comunicare ai parenti la nascita della sua terza figlia e scoprì che erano più di quanti immaginasse o sapesse.
Riflettendo su tale quantità Fago tornò a Taranto e cominciò una ricerca: prima il cimitero, poi la biblioteca, poi gli archivi, le carte pubbliche, le carte private: lettere, cartoline e fotografie. Ebbene, lo spettacolo consiste nell’esposizione di questa ricerca. Sul lato sinistro della scena c’è Fago, seduto dietro una scrivania. Egli va incollando i cocci di una bianca zuppiera. Dopo questa operazione, ne seguirà un’altra, sul lato destro, dove sono deposti un baule e una cesta: ne verranno tratti i vecchi abiti poi con ordine appesi ciascuno alla sua stampella: quasi dovessero rivivere lì, in scena, per un breve momento.
Di che cosa frattanto ci parla l’architetto e scenografo Amedeo Fago? Ci parla dei suoi avi, prima i bisnonni, poi i nonni, poi i genitori: e delle numerose famiglie scaturite dalle nozze di cui è riuscito ad avere materiale notizia.
Egli ci mostra in video ogni lettera, cartolina e foto e ce ne illustra il semplice, ingenuo, antico contenuto — quasi sempre legato all’assai meno semplice corso della storia pubblica, la storia d’Italia: l’Unità, la Libia, la Prima guerra mondiale, i podestà.
Ce ne parla con tono pacato, privo di accenti d’ogni tipo: egli è là, in carne e ossa, non è che un narratore. Poi, all’improvviso, le cose cambiano. Arriva un giovane uomo (Giulio Pampiglione). È il padre dell’autore quando aveva quasi cinquant’anni, cento anni fa. Il figlio gli mostra come sarà la sua vita, gli garantisce che di anni ne vivrà ancora cinquanta e dice che il loro incontro è possibile perché così è il teatro, il teatro è il luogo in cui si può risalire alle origini, due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, sedici bis-bisnonni, sessantaquattro avi, centoventotto trisavoli, fino ai miliardi dell’umanità intera. Ma lì, su quella scena il tempo non esiste, non ve ne sono che le polveri.