domenica 20 settembre 2015

Corriere 20.9.15
I segreti di un viaggio
In Francesco c’è la doppia preoccupazione di non schiacciare la Chiesa sulle posizioni «repubblicane»: aggettivo che oggi significa radicalismo anti-immigrazione e anti-Obama
Dai discorsi fatti riscrivere alla rinuncia a entrare negli Stati Uniti dal Messico per non farsi trascinare nella campagna presidenziale
di Massimo Franco


Quando il Papa ha letto i discorsi che gli erano stati preparati per la visita negli Stati Uniti, ha avuto una reazione di perplessità e poi quasi di disappunto. Tanto che alla fine ha deciso di rimandarli indietro: riteneva che non riflettessero abbastanza fedelmente né il suo pensiero, né il suo stile. Soprattutto, sembra che li abbia considerati troppo generici e poco strutturati. Per questo, ha affidato la soluzione del problema a persone di sua fiducia che ne conoscono lessico e traiettoria mentale. I discorsi sono stati riscritti praticamente da cima a fondo, e approvati. L’aspetto intrigante è che gli spunti per la stesura dei testi erano arrivati dai vescovi d’oltre Atlantico; e a rielaborarli era stata la Segreteria di Stato: elementi che hanno confermato le differenze culturali e di sensibilità tra Jorge Mario Bergoglio e alcuni dei suoi «grandi elettori» statunitensi.
A questo episodio vanno aggiunte le telefonate di protesta arrivate in Vaticano dall’America quando è stata discussa la lista degli invitati alla Casa Bianca per mercoledì prossimo, alla cena in onore del Papa. Ecclesiastici ma anche esponenti del cattolicesimo più solidamente conservatore hanno chiesto se la Santa Sede avesse espresso le sue rimostranze; o se il Pontefice avesse addirittura meditato di non partecipare a quell’incontro. La risposta diplomatica del Vaticano è stata che il Papa era un invitato, e non poteva decidere lui chi far partecipare: tanto più quando si tratta di quindicimila persone. Ma a parte le risposte diplomatiche, il problema che si è posto è stato quello di analizzare le ragioni di una scelta risuonata a Roma come minimo alla stregua di una gaffe. Al peggio, come uno sgarbo o addirittura una provocazione.
Nei riguardi di chi, però, e per quale ragione? Nella cerchia papale è stato ricordato che Obama ha sempre difeso le minoranze e i temi controversi sulle quali hanno costruito le loro battaglie: dai matrimoni omosessuali all’aborto. È stato ricordato l’entusiasmo col quale il presidente degli Stati Uniti salutò a luglio la decisione a maggioranza della Corte suprema di legittimare le nozze gay: un tema sul quale Francesco non ha parlato finora solo per non alimentare polemiche. Ma è difficile pensare che quando il segretario di Stato, il cardinale Piero Parolin, tuonò contro il risultato del referendum irlandese su questo tema, nel maggio scorso, il Papa non fosse d’accordo. La seconda riflessione si è concentrata sul fatto che l’inquilino della Casa Bianca non ha mai avuto un’appartenenza né una visione religiosa definite.
Alla fine, però, è affiorata anche una spiegazione più «politica». La sfida della Casa Bianca, se di sfida si tratta, non è tanto a Francesco ma ad un episcopato americano da sempre in conflitto con le Amministrazioni e il Partito democratico Usa ; e proprio sui cosiddetti «valori non negoziabili». Avere il Papa ad una cena dove sono presenti alcune delle realtà di fatto contro le quali combattono da anni vescovi considerati «guerrieri culturali» sarebbe un tentativo di spiazzarli, e inserire un cuneo potenziale tra Roma e la Conferenza episcopale statunitense. Ma la manovra è tutta da dimostrare: anche perché appare altamente improbabile che potrebbe riuscire, vista la lealtà e la devozione dei vescovi al papato. È vero solo che alcuni di loro vorrebbero parole più nette a difesa della famiglia e sulle questioni etiche dirimenti.
In Francesco, però, c’è la doppia preoccupazione di non schiacciare la Chiesa cattolica sulle posizioni «repubblicane»: aggettivo che oggi, negli Usa, significa un radicalismo anti-immigrazione e anti-Obama ben riflesso dalla rozzezza delle parole d’ordine del miliardario e candidato Donald Trump. Più in generale, Bergoglio non vuole deflettere da una strategia «inclusiva» e «positiva». Si tratta di un’opzione che comporta uno spostamento e un ammorbidimento degli accenti su questi temi: anche perché l’approccio aggressivo del passato non ha portato grandi passi in avanti. Il timore di essere tacciato di antiamericanismo e infilato a forza nella campagna presidenziale è anche quello che ha scoraggiato una tappa di Francesco a Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Usa.
La città è il simbolo di una realtà transfrontaliera ed è uno dei punti di passaggio e di sfruttamento dell’emigrazione dall’America Latina. E il governo messicano era tra quelli che si erano candidati ad ospitare il Pontefice, desideroso di arrivare negli Usa dal «Sud», in omaggio alla sua origine argentina. Alla fine, però, l’ipotesi è stata scartata perché troppo «impegnativa» in vista del viaggio a Washington, Filadelfia e New York. Dopo avere escluso altre tappe, Francesco ha optato per Cuba, sorprendendo tuttavia la Casa Bianca e la stessa Segreteria di Stato vaticana. La volontà di abbinare due nazioni così agli antipodi è un omaggio all’America Latina e un modo per ricordare agli Usa quanto sia importante la ripresa del dialogo e la fine delle tensioni tra il regime comunista dei Castro e il Nord America.
E questo nonostante la Santa Sede ammetta che il suo ruolo di mediazione è stato molto simbolico ma poco operativo. «Ci hanno chiesto di firmare una loro bozza di accordo alla nostra presenza. Ma per circa sei mesi hanno trattato da soli, in Canada», si spiega in Vaticano. Sui tempi della transizione verso la democrazia, le previsioni divergono profondamente. Alcuni dei consiglieri di Francesco ritengono che senza la fine della «generazione della rivoluzione» castrista, la situazione cambierà poco. Oltre tutto, Raúl Castro sarebbe un moderato rispetto al nocciolo duro del Partito comunista, che celebrerà il congresso nella primavera del 2016. «In più, Cuba è un’isola, tagliata fuori da tutto per oltre mezzo secolo», si osserva. «Non è la Polonia, o la Cecoslovacchia o la Germania dell’Est, che avevano contatti col mondo esterno. Lì un cambiamento può arrivare solo se nasce dall’interno».
L’idea statunitense dell’«inevitabilità della democrazia» è suggestiva, e probabilmente esatta. Ma poco prevedibile nella sua tempistica. Il regime ha bisogno degli Usa dopo la deriva fallimentare del Venezuela che mandava soldi e petrolio in cambio di medici e infermieri cubani. Per paradosso, tuttavia, continua a dover usare anche l’embargo statunitense per coprire i propri fallimenti economici e politici. Probabilmente, per capire come andrà a finire bisognerebbe sapere meglio che cosa si sono detti gli emissari statunitensi e di Cuba nella loro lunga trattativa segreta. Sempre che la realtà della nomenklatura comunista caraibica sia disposta a conformarsi a quel percorso verso la democrazia .