martedì 1 settembre 2015

Corriere 1.9.15
L’inatteso ritorno dei confini
di Sabino Cassese


Un miliardo e mezzo di persone viaggerà da una nazione all’altra nel 2016, secondo previsioni dell’Associazione delle compagnie di trasporto aereo (sono state più di un miliardo e cento milioni nel 2011), moltissime senza bisogno di visto dei Paesi d’entrata e alcune senza neppure bisogno di un passaporto del proprio Paese. Miliardi di persone godono di maggiore benessere grazie alla liberalizzazione mondiale del commercio (e tra poco anche ai partenariati transatlantico e transpacifico sul commercio e gli investimenti). Segni di difficoltà dell’economia cinese hanno prodotto immediati effetti sulle Borse di quasi tutto il mondo. Ben 232 milioni di persone vivono in Paesi diversi da quello di nascita. Su 500 milioni di abitanti dell’Unione Europea, 33 milioni sono quelli nati fuori dell’Unione. In Italia, gli immigrati sono 5 milioni (8% della popolazione) e contribuiscono — secondo una stima — a formare più dell’8% della ricchezza nazionale. Si poteva sperare che globalizzazione, apertura dei commerci, deterritorializzazione del potere portassero a una obsolescenza delle frontiere. Invece, ieri l’Austria ha rafforzato i controlli di polizia sui confini orientali. Nei giorni scorsi, l’Ungheria ha costruito un muro alla frontiera con la Serbia, seguendo il cattivo esempio della barriera tra Stati Uniti e Messico.
Quel che è peggio, si fanno diventare elastiche le linee di demarcazione nazionali.
Il Regno Unito ha incaricato forze di polizia francesi di presidiare la frontiera, su territorio francese, come il Canada, che, d’accordo con le autorità straniere, svolge pre-ispezioni in porti e aeroporti esteri nei quali si imbarcano passeggeri diretti in Canada. Stati Uniti e Australia sono andati oltre, arretrando (sulla carta) di cento miglia i limiti territoriali per facilitare l’espulsione rapida di immigrati, che vengono trattati, quindi, su suolo americano e australiano, come se fossero presi sulla frontiera, con decisioni non sottoposte a controllo giurisdizionale.
Questa chiusura nelle proprie frontiere pone problemi enormi alla coscienza moderna. Ne voglio indicare solo tre. In primo luogo, la riscoperta delle barriere all’entrata non tiene conto che chi fugge si priva dell’appartenenza a una comunità, e, quindi, anche del «diritto ad avere diritti» che deriva da tale appartenenza. La chiusura delle frontiere lo precipita in un limbo giuridico (oltre a causarne spesso la morte).
La chiusura, in secondo luogo, è disposta da Paesi che hanno fatto propria la tradizione, risalente al 1789, secondo la quale sono garantiti i diritti «dell’uomo e del cittadino» (prima dell’uomo che del cittadino) e sono tenuti a rispettare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Dunque, da Paesi che sono obbligati a garantire non solo i diritti dei connazionali, ma anche quelli degli «altri». Da Paesi che si valgono dell’apertura delle fron-tiere quando fa comodo (per esportare merci, investire de-naro, viaggiare), le chiudono quando si sentono minacciati dall’immigrazione di persone.
Infine, questa chiusura nazionalistica ripropone l’interrogativo al quale cercò di dare una risposta nel 1882 il grande storico del cristianesimo Ernest Renan: che cosa è una nazione? Una nazione è tenuta insieme solo da una lingua comune, da tradizioni e costumi condivisi, oppure è fatta da una comunità di ideali più ampi, che si allargano anche a chi non vi è nato? Quella comunità che chiamiamo nazione è tenuta in vita solo da una comunione di interessi o anche da una comunanza di principi (tra cui quello di dare asilo a chi fugge da guerre e persecuzioni nella propria patria)? Nazione comporta appartenenza esclusiva oppure anche partecipazione a una collettività più vasta (come dovrebbero testimoniare le migliaia di organizzazioni internazionali esistenti)?