lunedì 14 settembre 2015

Corriere 14.9.15
Liutprando, storia e incanto
Lo studioso che scoprì il gusto del racconto
di Pietro Citati


Liutprando di Cremona, nato quasi certamente a Pavia attorno al 920, scrisse il più bel libro di storia del Medioevo latino: la Antapodosis, che esce domani, curata con grande perizia da Paolo Chiesa e Girolamo Arnaldi, presso la Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori). Come dice Liutprando, il titolo del libro «desta in noi grande stupore». Esso significa «pariglia»: il suo scopo è quello di «narrare, svelare e denunciare» le imprese di Berengario re d’Italia e di sua moglie; e insieme di contraccambiare i benefici delle persone che avevano protetto Liutprando. Il libro fu scritto in esilio: in parte a Francoforte, e in parte nell’isola di Passo, a novecento miglia da Costantinopoli.
L’ Antapodosis parla di se stessa con grandissima fascinazione. Viene opposta ai libri di Cicerone: rispetto a essi sembra soltanto una storia leggera, che racconta fatti contemporanei, dunque indegni di menzione; eppure, commenta Liutprando, perché tacere le guerre dei combattenti di oggi, non meno degni di lode dei grandi del passato? In parte, egli ha visto con i suoi occhi e ascoltato con le sue orecchie i fatti raccontati: in parte, la sua testimonianza riposa su voci ripetute e riflesse. Questa contaminazione e fusione di voci e di narratori riesce, nell’ Antapodosis , deliziosa, ed è quasi isolata nei testi degli storici del Medioevo.
Il grande libro ha due obiettivi principali. Il primo deriva da un passo dei Vangeli, ricordato come motto: «Non c’è nulla di segreto che non sarà svelato, e nulla di nascosto che non verrà alla luce». Prima del racconto di Liutprando, la storia d’Europa e d’Italia affonda nelle tenebre: ma dopo la scrittura brilla e scintilla alla luce. Il secondo è il tentativo di illustrare come Dio governa il mondo e la storia. Dio si diverte: foggia e contempla l’alternarsi delle sorti umane, le loro contraddizioni, il loro vario, coloratissimo gioco. Liutprando lo imita: non gli importa tanto di raccontare la verità, quanto una delectabilis historia , un gioco meraviglioso, che incanti , affascini e diverta i lettori. Quindi egli si sforza di moltiplicare gli stili: ora è ampio, ora stringato, ora secco, ora fiorito. Un altro divertimento — più difficile da scoprire — è quello procurato da Satana, il «perfidissimo nemico del genere umano», che con grande rapidità e astuzia alterna le sue trame, talvolta imitando i modi della Scrittura.
La materia dell’ Antapodosis è vastissima: la storia d’Europa, d’Italia e di Bisanzio nel nono e in una parte del decimo secolo. Ecco la Baviera, la Svevia, la Franconia, la Sassonia, sulle quali regna il potentissimo re Arnolfo, a cui si oppone il re Centebaldo. Ecco Guido e Berengario, che si disputano il regno d’Italia: ecco Roma, governata da papi e papesse. I saraceni conquistano Frassineto, al confine tra l’Italia e la Provenza: infuriano, fanno strage, non risparmiano nulla: risalgono verso Nord, fino ad Acqui, quasi a Pavia: giungono con una flotta a Genova, entrano in città, trucidano gli abitanti: poi invadono la Calabria, la Puglia, Benevento; gli imperatori di Bisanzio mandano senza indugio flotte contro i Saraceni, e hanno la meglio su di loro, che si rifugiano sul monte Garigliano.
Non riuscendo a sconfiggere Centebaldo, re Arnolfo chiama in Italia gli Ungari — «quel popolo rapace, temerario, ignaro di Dio ma esperto di ogni crimine, bramoso soltanto di strage e saccheggio». «Oh, cieca brama di potere di re Arnolfo!», commenta Liutprando. «Oh, giorno infausto e amaro! Per abbattere un solo, piccolo uomo, si provoca la rovina dell’Europa intera! A quante donne, ambizione cieca, procura la vedovanza, a quanti sacerdoti e uomini di Dio la prigionia, a quante chiese la devastazione, a quante terre popolate lo spopolamento!».
Gli Ungari distruggono i castelli, mettono a fuoco le chiese, trucidano le popolazioni, bevono il sangue, si precipitano contro il grande esercito di re Ludovico, assalgono i cristiani all’alba, quando essi sbadigliano nel sonno. Ritornano, calando sulla «misera Italia». Piantano le loro piccole tende, che assomigliano a mucchi di stracci, presso il fiume Brenta e mandano esploratori a tre giorni di cammino. La primavera successiva ritornano ancora con un esercito sterminato. Finalmente vengono sconfitti; e promettono di consegnare tutto il bottino, i prigionieri, le armi, i cavalli. Nella battaglia successiva, l’esercito cristiano implora pietà dal cielo cantando il Kyrie eleison : mentre gli Ungari gettano un grido osceno e diabolico: «Hu Hu», il grido di Satana. Infine, nell’anno 924, bruciano Pavia, la quale poi fu salvata grazie «alla gloriosa intercessione» di San Siro.
La parte più bella dell’ Antapodosis è l’ultima, che si svolge a Costantinopoli. Liutprando aveva già rievocato la follia dell’imperatore Michele. Questi, preso da eccessi di follia, faceva condannare a morte anche le persone che gli erano più vicine: ma quando tornava in sé, le rivoleva indietro; e minacciava che, se non gli fossero state restituite, avrebbe ucciso i persecutori. Gesù Cristo apparve in sogno a Michele: il quale riconobbe con lacrime di sangue di essere peccatore e di aver versato sangue innocente.
Il patrigno di Liutprando, «scelto per la sua rettitudine di vita e il suo garbo nel parlare», venne mandato come ambasciatore presso l’imperatore di Bisanzio, che lo accolse con grandi onori. L’ Antapodosis parla della lancia di Costantino il grande: essa aveva nel dorso alcune croci formate da chiodi confitti nella mani e nei piedi di Gesù Cristo; ed era lo strumento con cui Dio univa la terra e il cielo, la pietra angolare che aveva fatto di due cose lontane e opposte una cosa sola.
Quando l’imperatore di Bisanzio chiese a re Berengario di mandargli un ambasciatore, costui scelse Liutprando, perché sapeva il greco ed era maestro di eloquenza. Liutprando lasciò Pavia il primo agosto del 949: dopo tre giorni giunse a Venezia; il 25 agosto partì da Venezia, e il 17 settembre giunse a Costantinopoli: fu il culmine della sua esistenza. Egli offrì all’imperatore i doni che aveva portato con sé da Pavia: nove bellissime corazze, sette scudi con borchie dorate, due coppe d’argento ricoperto d’oro, spade, lance, giavellotti e quattro preziosissimi schiavi eunuchi. Vide il palazzo, che per solidità e bellezza era superiore a tutte le fortezze che aveva visitato fino a quel momento, ed era sorvegliato da una folla di guardie.
Un altro palazzo, «di mirabile grandezza e bellezza», veniva chiamato dai Greci «Magnaura», cioè la «la Grande Aura». Davanti al trono dell’imperatore c’era un albero di bronzo, laminato d’oro: i rami erano pieni di uccelli di diverso genere, ognuno dei quali riproduceva il verso proprio della sua specie. Il trono dell’imperatore era dotato di un astuto congegno, che lo faceva apparire ora basso, dopo un attimo più alto, e poi subito altissimo: dei leoni enormi, ricoperti d’oro, battevano la coda per terra e ruggivano aprendo la bocca e muovendo la lingua.
Quando Liutprando giunse, i leoni si misero a ruggire, e gli uccelli a cantare, ognuno col suo verso. Egli si chinò tre volte in adorazione davanti all’imperatore. Quando rialzò la testa, l’imperatore, che prima era seduto a livello del suolo, di colpo balzò vicino al soffitto, con vesti diverse. Il segreto di Bisanzio consisteva in queste meraviglie, che esprimevano il mobile mistero della regalità, il suo fasto e la sua illusione.