lunedì 14 settembre 2015

Corriere 14.9.15
Bisogna dare un’anima alla legge di stabilità
di Giuseppe De Rita


Siamo ormai alla vigilia del rituale appuntamento con la legge di Stabilità e delle relative rituali discussioni. C’è però da temere, ricordando quel che è avvenuto negli anni passati che non scatti una adeguata messa a fuoco della direzione di marcia su cui orientare la dinamica del sistema nel medio periodo; ed è quindi improbabile che si possa far capire alla collettività il tipo di sviluppo verso cui ci stiamo muovendo.
Certo la natura stessa della legge di Stabilità non aiuta. Si tratta infatti di un documento sfuggente e senz’anima, una legge contenitore dove devono trovare posto problemi distantissimi fra loro (dai rapporti con l’Europa alla regolazione della partecipate degli enti locali; dal serio mantenimento del rigore di spesa al fronteggiamento delle migliaia di istanze particolaristiche sempre in agguato) e su cui c’è da aspettarsi una valanga di numeri, simulazioni, prospetti illustrativi, interviste di addetti ai lavori, cosa che non aiuta una dialettica sociopolitica orientata al futuro.
Sarebbe un grave errore, specialmente in un anno in cui la coraggiosa rivendicazione del primato della politica e un foltissimo programma di riforme hanno creato nella collettività tre precise domande di comprensione e coinvolgimento. Partendo magari proprio dal programma di riforme. Non basta più ricordare quante siano, occorre che la gente capisca il loro «valore sistemico», in modo che quel che si è fatto ad esempio in materia di scuola, edilizia scolastica, pensioni, sia vissuto dalla gente come una complessiva nuova configurazione del nostro welfare ; o che quel che si è fatto in materia di semplificazione, di politiche del lavoro, di incentivi alle imprese sia considerato dalla collettività come una nuova armatura del nostro sviluppo industriale ed occupazionale; e così via per tutte le scelte riformiste, che una volta avviate, vanno valorizzate nel medio periodo, in una logica di loro sistemico intrecciarsi.
Tale logica si impone comunque anche sui temi che per loro natura non possono essere trattati con quell’impegno di riforma privilegiato finora, ma che non possono neppure esser lasciati ad una ulteriore disattenzione. Si pensi ai temi della sistemazione dei poteri locali (fra il fallimento del federalismo e il progressivo affermarsi dei cacicchi locali); alla messa a fuoco del ruolo e della qualità delle grandi città, anche al di là delle ambiziose città metropolitane; alla copertura, anche intellettuale, del persistente buco di opinione e di azione sulla realtà del Mezzogiorno; ed all’urgenza di fare sempre più «qualità di sistema» (nella gestione del territorio, nell’ appeal dell’agroalimentare, nel turismo, ecc.).
Ed una terza grande attenzione a collocare le decisioni di oggi in una dinamica di medio periodo si impone per quei potenziali impegni forti (la riduzione delle imposte e la battaglia sullo sforamento dei parametri europei) di cui tanto si parla e che tanta suggestione inducono nell’opinione pubblica; sono anzi proprio essi che hanno più da guadagnare dall’essere inseriti in una logica di medio periodo, in quanto, pur perdendo un po’ di appeal mediatico, si radicherebbero però come potenziali assi portanti della trasformazione del sistema.
Nei tre grandi campi indicati occorre quindi un inquadramento di medio termine. Non un piano, per carità, per non esporsi ad antiche e ritornanti ironie, ma almeno un breve documento di accompagnamento della legge di Stabilità (con un «preambolo» o una «nota aggiuntiva» per usare formule cautamente usate in passato) in cui si spieghi alla collettività, in una piana e comprensibile esposizione, verso quali obiettivi stiamo calibrando le decisioni di oggi.