giovedì 27 agosto 2015

il manifesto 27.8.15
Cina, le aziende di Stato e la redistribuzione
di Simone Pieranni


Cina. Senza welfare, nelle grandi città, i lavoratori non spendono, risparmiano per tempi migliori o per mandare a scuola i propri figli. Insieme dunque ad un aumento dei salari, come prospettato su queste pagine dall’economista indiana Ghosh, serve un riaggiustamento della giustizia sociale, la possibilità per i lavoratori di godere di welfare che permetta di affrontare con più serenità la propria permanenza in città il cui costo della vita aumenta ogni giorno.

A Pechino erano coscienti che la transizione cinese sarebbe stata complicata. Trasformare un’economia che aveva risollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone e portato la Cina a tornare al centro del mondo, non è né semplice né realizzabile in tempi rapidi. Xi Jinping — che ha lanciato il suo Sogno cinese, con l’obiettivo di creare un mercato interno capace di trainare il paese — sapeva bene quali erano i compiti che lo aspettavano: riformare le aziende di Stato per contrastare gli investimenti fallimentari e le bolle, allargare le funzioni dell’Assemblea nazionale, specie in materia fiscale per agevolare la classe media in crescita e ridisegnare un welfare capace di permettere ai lavoratori di spendere di più nei consumi, anziché risparmiare per fare fronte a eventuali difficoltà (ad esempio le tante spese sanitarie).
Il primo punto è quello più complicato, perché Xi Jinping — il presidente, nonché segretario del partito comunista — sapeva bene che avrebbe incontrato resistenze.
Non si tratta di uno scontro tra supposti riformatori o conservatori in senso specificamente politico, quanto di una guerra sotterranea e continua tra chi gestisce fette di potere. È uno scontro tra chi vuole ampliare il proprio potere e chi lo difende.
Perché dunque le aziende di Stato vanno riformate? Perché in quel meccanismo di totale impunità, senza alcun controllo da parte dei vertici, si annidano corruzione, tangenti e investimenti che alimentano bolle. I dirigenti delle grandi aziende statali, che in combutta con i funzionari di Partito gestiscono ingenti quantità di denaro, sono stati finanziati dalla corsa alla borsa e hanno finito per buttare in un vicolo cieco (o in bolle rischiose) gli investimenti garantiti. Una riforma delle aziende di Stato è dunque vista come necessaria per creare maggiore competitività, come richiedono le regole del mercato che il Partito ha finito per accettare. Xi Jinping, ben consapevole delle difficoltà di questo processo, ha scelto la strada più tortuosa, tuttavia anche l’unica a sua disposizione.
Ha accentrato potere, dando vita ad una campagna anti corruzione violentissima contro quadri e funzionari, migliaia sono stati arrestati e indagati. Lo scopo era duplice: ripulire le incrostazioni di vecchi leader (da Zhou Yongkang a Jiang Zemin, probabile prossima vittima) e arrivare proprio ai vertici delle aziende di Stato. Ma, dicono i bene informati, proprio i colossi avrebbero tirato un brutto scherzo a Xi Jinping, finendo per concorrere al capitombolo della borsa (a questo proposito è stata aperta un’indagine per insider trading). Si dirà che i mercati finanziari cinesi possono sopportare la botta essendo cresciuti a dismisura (come specifica Romano Prodi su Il Sole24ore).
A Xi Jinping, però, è stato inferto un colpo non da poco: improvvisamente la dirigenza cinese è apparsa inaffidabile, incapace di gestire il processo, gettando nel panico anche le borse mondiali. In questo modo chi sta lottando per difendere le proprie posizioni ha portato a segno un colpo piuttosto rilevante, ma analogamente ha finito per scoperchiare «il» problema, ovvero la necessità per la Cina di proseguire nelle riforme necessarie, affinché la «nuova normalità» possa finalmente prendere il suo corso.
Nel progetto di Xi Jinping per realizzare il «sogno cinese», c’è naturalmente lo sviluppo del mercato interno che può crescere solo se — insieme ad una spinta sull’innovazione delle grandi aziende di Stato — verrà riformato il sistema dell’hukou, ovvero il certificato di residenza applicato in epoca maoista, che àncora al luogo di nascita i diritti sociali. Senza welfare, nelle grandi città, i lavoratori non spendono, risparmiano per tempi migliori o per mandare a scuola i propri figli.
Insieme dunque ad un aumento dei salari, come prospettato su queste pagine dall’economista indiana Ghosh, serve un riaggiustamento della giustizia sociale, la possibilità per i lavoratori di godere di welfare che permetta di affrontare con più serenità la propria permanenza in città il cui costo della vita aumenta ogni giorno.
Al di là delle potenziali riforme, infine, c’è una questione aperta relativa al nuovo patto sociale tra Partito e popolazione. Il post denghismo è stato gestito in modo completo da Jiang Zemin, dando vita alla fabbrica del mondo, con non pochi costi sociali, affiancati al miracolo economico.
Jiang Zemin, appena qualche anno fa, di fronte al ritorno di una sinistra che ricercava proprio la necessaria «redistribuzione», ha agito da boss incontrastato, contribuendo non poco alla fine del «modello Chongqing» (caratterizzato dalla forte presenza dello Stato e politiche di redistribuzione) e alla fine della carriera politica di Bo Xilai (gli esecutori sono stati Hu Jintao e Wen Jiabao). La «visione» di Bo Xilai rappresenta ancora oggi — con tutti i suoi limiti — l’unica alternativa alla crisi del capitalismo di Stato cinese.
A Chongqing — megalopoli da 30 milioni di abitanti — Bo Xilai era amato e al di là delle cronache giornalistiche, che avevano saputo catturare la sua mediaticità, il suo «neomaoismo» aveva trovato linfa tanto nel partito quanto nella società civile. Xi Jinping ha contribuito ad affossarlo in nome del tentativo di mischiare Jiang Zemin e Bo Xilai: più spazio ai privati e nuova redistribuzione. Un’alchimia che ancora non è riuscita e che ha scatenato — come prevedibile — nuovi scontri interni.