venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 2.8.15
E’ chiara la data di nascita, 1979
L’inutilità del postmoderno
Dato per morto o per moribondo più volte sarù ricordato solo per le fragili utopie
di Carlo Bordoni


Bibliografia
Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna (Feltrinelli, 1979 e 2014); Jean Baudrillard, Simulacri e impostura (Cappelli, 1980); Gianni Vattimo, La fine della modernità (Garzanti, 1985); Fredric Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (Garzanti, 1989); Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno (Bollati Boringhieri, 1997); Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità (Laterza, 2003); Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità (Lupetti, 2005); Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, 2007); Romano Luperini, La fine del postmoderno (Guida, 2005); Sébastien Charles, L’ipermoderno spiegato ai bambini. Lettere sulla fine del postmoderno (Bonanno, 2009)

«Il faut être absolument postmoderne!». La parafrasi dell’invocazione di Arthur Rimbaud nelle ultime pagine di Una stagione all’Inferno — si deve essere assolutamente postmoderni — potrebbe ben rappresentare il clima di esaltazione innovativa che si respirava alla fine degli anni Settanta e che si andava estendendo a ogni campo del sapere — dall’architettura alla filosofia, dalla letteratura alla new economy — nella convinzione di assistere a un’originale rivoluzione culturale, cui era necessario partecipare per non restare emarginati.
È probabile sia nato qui, in questo frangente di entusiasmo collettivo che ha contagiato intellettuali, artisti e maestri di vita, quel bisogno perennemente insoddisfatto di essere sempre aggiornati, di muoversi in fretta, per non restare indietro. Con la sensazione allarmante che il mondo corra a una velocità superiore alla nostra, provocando un effetto di continua angoscia e stress. Dichiararsi postmoderni era più che una moda: piuttosto un’attitudine mentale determinata dalla consapevolezza di vivere un momento cruciale di passaggio tra un mondo obsoleto, la modernità, e uno nuovo che allora si presentava come luminoso, colorato, forse un po’ frivolo, ma soprattutto liberato di quei gravami ideologici che l’Illuminismo, prima, e il Marxismo, dopo, si erano portati dietro.
Così, prima che l’intellighenzia provvedesse a fissare altre regole di comportamento e paletti culturali entro cui racchiudersi, il postmoderno — con quel prefisso malandrino che segnalava già un’opposizione, una divisione temporale — appariva come l’occasione per mettere in discussione verità attestate, etiche e doveri. Forse l’atteso figlio del ’68 che, a un decennio di distanza, accorciati i capelli, si mostrava ripulito e un po’ saccente.
Il termine ha goduto di una popolarità immediata e di una diffusione superiore alla comprensione del suo reale significato, finendo per essere usato a sproposito, come dispregiativo, oppure per indicare un oggetto insolito. Molti non si sono resi conto di che cosa si trattasse, ritenendo la postmodernità una condizione esistenziale al pari del dopoguerra. Quel «post» traeva in inganno e lasciava intravedere prospettive incerte circondate da un alone di nebbia, mentre il postmoderno si andava dissolvendo nel silenzio, travolto da altre e più urgenti questioni. Ma da quando si può parlare di postmoderno? Da quando negli Stati Uniti prende l’avvio in architettura, presentandosi come un’innovazione per eliminare le disarmonie ambientali. Il suo esponente più rappresentativo è l’architetto Robert Venturi, che abbandona le linee rette, pulite ma fredde di Le Corbusier e Mies van der Rohe e preferisce la forma sinuosa, imperfetta, recuperando il gusto per l’ornamento e la decorazione. Utilizza il linguaggio iconico della Pop Art, mischiando elementi classici e popolari. Venturi recupera particolari dal passato, in una fantasiosa costruzione di forme che sconfinano nel kitsch e si nutrono degli scarti culturali della produzione di consumo.
L’accoglienza in campo filosofico si deve all’opera del francese Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna (1979), destinata a un grande successo. Per Lyotard la modernità esaurisce il suo compito storico nel momento in cui crollano i suoi fondamenti o «grandi narrazioni». Strutture uscite dal feudalesimo ed erette all’indomani della rivoluzione industriale, basate sulla forza portante delle ideologie, sull’industrializzazione, l’etica del lavoro, l’idea di progresso. La scelta del termine non è stata facile e c’è ancora chi rifiuta di usarlo per indicare quella condizione di disagio che si accompagna alla crisi della modernità. Al postmoderno usato da Lyotard si sono aggiunte numerose varianti, dalla surmodernità (Augé) alla ultramodernità (Gaudet e Zarca); dalla metamodernità (Giddens) alla seconda modernità (Beck), fino alla più recente ipermodernità (Lipovetsky).
Per Habermas, come per Bauman, la modernità è un progetto incompiuto, a cui va aggiunto l’ultimo Lyotard, secondo il quale è necessario essere stati postmoderni, prima di diventare moderni. In realtà Bauman aveva accolto, sia pure con riserva, la dizione postmodernità, utilizzandola nei testi precedenti al 2000, prima dell’intuizione di una modernità liquida, che di fatto va oltre ogni limite temporale, fino a cogliere la complessità di un presente fatto di incertezze e precarietà.
L’idea postmoderna è ben rappresentata dal decostruzionismo di Jacques Derrida e dal pensiero debole di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, che si richiamano a Nietzsche e a Heidegger, per il quale era necessario voltarsi a osservare la modernità con distacco, quasi si trattasse di «monumenti commemorativi». L’uomo postmoderno si pone al di qua di quegli eventi, per questo è «post», collocato fuori dalla storia.
Per coglierne il profondo risvolto innovativo è necessario insistere sulla sua radicale rottura con il passato, a cui guarda come a un reperto. Utile da citare, indicandone gli elementi distintivi, mescolando l’alto col basso, il colto col popolare. Il gusto per la citazione è fondamentale: citazioni iconiche, consapevoli, utilizzate per esprimere significati diversi da quelli canonici che divengono «simulacri» (Baudrillard) di un mondo estraneo di cui conservare il ricordo. La citazione si fa strumento di comunicazione, produttrice di senso in un discorso non scontato. Nella filosofia, come nell’arte e nella letteratura, il postmoderno si oppone a un passato che sente lontano come la stessa idea di storia. Restarne fuori, liberarsi di quel gravame di secoli sulle spalle deve essere apparso un risultato positivo, finalmente concesso dalla rottura delle catene di dogmatismi ideologici, in vista di un rinnovamento.
Di fine della storia hanno cominciato a parlare un po’ tutti, a cominciare da Francis Fukuyama (1989) con la sua ipotesi di trionfo del capitalismo. L’idea inebriante che si potesse fare a meno delle esperienze sedimentate nel tempo, gettando tra i rifiuti quanto di solido era proprio della modernità e persino il lavoro, che si scopre immateriale (André Gorz) o addirittura prossimo alla fine (Jeremy Rifkin), aprendo all’uomo dal pensiero debole un futuro di immenso tempo libero, di piaceri e di sostanziale inutilità esistenziale. Questo perché, lasciate le sponde solide dei valori e dei punti di riferimento, è stato subito chiaro quanto fosse illusoria quella liberazione dal passato e come la pratica dell’osservazione al di qua della storia, del citazionismo e dell’effimero, non conducesse che al primato dell’apparenza. Apparire , più che essere o avere, è stato il segno identificativo della postmodernità. Salvo poi tornare bruscamente al principio di realtà quando l’intervallo è finito. Senza neppure avvertire il suono della campanella.
Se del postmoderno conosciamo con certezza la data di nascita, alla fine degli anni Settanta, grazie a quel manifesto programmatico firmato da Lyotard, quella della sua fine è incerta, essendo passata sotto silenzio, quasi accompagnata da un velato disprezzo da parte di chi ne aveva sollecitato l’adozione, liberandosene poi come di un fastidioso fardello. Può essere cercata nella crisi economica del 2008, o nella scomparsa di Derrida (2004), il filosofo francese che non si definì mai postmoderno, ma che dello spirito della postmodernità è stato il più alto interprete. Oppure, più modestamente, dal declino del «berlusconismo», di quella cultura basata sulla spettacolarizzazione, il primato delle televisioni, i lustrini e le luci dell’effimero. Desiderabili rappresentazioni di un mondo-altro, diverso dalla quotidianità, ma così prossimo da poter essere raggiunto toccando lo schermo. Fatto di successo, potere, benessere, consumo. Una modalità che il filosofo Guy Debord aveva già denunciato nel suo La società dello spettacolo (1967), e di cui oggi si ritrovano tracce indelebili nei social e nell’approccio alla rete.
Il postmoderno si diffonde in tutti i settori della società. Se dovessimo pensare a uno spettacolo tv rappresentativo, sceglieremmo Drive in (1983-88), il programma contenitore di Antonio Ricci. Nelle arti il New Hoover Celebrity III (1980), installazione di Jeff Koons; in architettura la Casa danzante (conosciuta anche come Fred and Ginger ) di Frank O. Gehry e Vlado Milunic nel quartiere Nové Mesto di Praga (1996). Nel campo della letteratura Romano Luperini ne aveva decretato il superamento, con perfetto tempismo, in La fine del postmoderno (2005), reagendo al più accondiscendente Raccontare la postmodernità di Remo Ceserani degli anni precedenti, che ne aveva cavalcato le possibilità espressive. Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco resta il romanzo più rappresentativo: ricco di citazioni, leggibile su più livelli, coniuga la narrativa alta, sofistica, con quella bassa, popolare, del gothic romance . Esempio di rottura degli schemi tradizionali che volevano la paraletteratura, destinata al consumo, distinta dalla letteratura ufficiale, secondo le ben note direttive crociane. Un’operazione di democratizzazione o di contaminazione che ha riproposto tutti i generi letterari, dalla fantascienza al giallo, alla considerazione della critica. Forse il lascito più positivo di una corrente di pensiero che — se guardata ora da lontano, dal nostro presente, assieme ai suoi protagonisti, ai simboli, ai riti, alle ingenuità e alle superficiali soluzioni — potrebbe essere ricordata solo per la sua fragile e utopistica inutilità.