venerdì 21 agosto 2015

Corriere 6.8.15
Democratici
Al pd serve chiarezza la minoranza che fa?
Negli ultimi vent’anni sono scomparsi i congressi in cui ci si divideva ma si mediava e si raggiungevano sintesi unitarie
Ora chi non condivide la linea di Renzi deve trovare un comune denominatore oppure decidere di creare un soggetto esterno
di Paolo Franchi


Lasciamo perdere il Vietnam. E lasciamo stare pure i gufi e i rematori all’incontrario di berlusconiana memoria. Stiamo, più prosaicamente, ai fatti. Che ci parlano del Pd come di una grande magione un po’ délabré in cui convivono, guardandosi in cagnesco, dei separati in casa. Di qua la maggioranza di un segretario, Matteo Renzi che, plebiscitato alle primarie, da due anni è anche presidente del Consiglio, e addita all’opinione pubblica i suoi oppositori come una palla al piede, fastidiosa sì, perché gli fa perdere tempo prezioso, ma non così pesante da impedirgli di muoversi. Di là una minoranza (i postcomunisti, ma pure parecchi postdemocristiani) che vorrebbe riprendersi una Ditta (la chiamano così forse per aziendalismo, forse per un retaggio dei tempi lontani della clandestinità) di cui l’usurpatore Renzi, con il suo seguito di yes boy e di yes girl, vorrebbe cambiare radicalmente la ragione sociale. Per ridurre il Pd (e, visto che governa, l’Italia) a sua immagine e somiglianza. In nome non più di una sinistra che guarda al centro, ma di un centro di (semi)nuovo conio che considera la sinistra politica e sociale come un lascito del passato.
Il Pd è pure parecchie altre cose. Per fare un esempio: i suoi due potenti governatori del Sud, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, con questa rappresentazione hanno poco da spartire. Ma, almeno al centro, questi sono i termini dello scontro. E di questo, dunque, tocca parlare. Ha scritto ( Corriere del 4 agosto) Aldo Cazzullo, rivolgendosi in primo luogo alla sinistra del partito, che in ballo ci sono ormai «due idee della politica e della società inconciliabili», e dunque gli oppositori debbono scegliere. O riescono a trovare un comun denominatore con la maggioranza, preparando intanto una candidatura interna sufficientemente forte da sfidare Renzi per la guida del partito e del governo nella prossima legislatura. O prendono atto che la loro incompatibilità con il segretario-presidente non consente alcun compromesso e se ne vanno per costruire con quelli che ci stanno una forza alla sua sinistra. Tertium non datur .
L’alternativa può suonare un po’ drastica, ma Cazzullo ha ragione. Renzi e i suoi non si sono davvero dannati l’anima per costruire dei ponti verso la minoranza, ma adesso è a questa che spetta il compito di provarci, indicando le sue disponibilità e fissando i suoi paletti. Forse, però, sarebbe meglio dire: spetterebbe. E a suggerire il condizionale non sono solo la refrattarietà di Renzi al dialogo e al compromesso e i limiti strutturali di un’opposizione che sogna una riconquista per mille e un motivo impensabile e improponibile. La domanda può sembrare ingenua. Ma dove e come si stabilisce se ci sono, e nel caso quali sono, le condizioni per restare insieme e, soprattutto, quale platea lo decide? Una volta nessuno avrebbe avuto dubbi in materia: sulle sorti del partito è sovrano il congresso, ordinario o no poco importa. Un congresso teso, drammatico, ricco di colpi di scena, in cui i contendenti si confrontano alla tribuna, in platea i delegati aspramente si dividono, nelle segrete stanze, quelle di cui, giovani cronisti, cercavamo di carpire i veri o presunti segreti, si tratta fino all’ultimo minuto utile.
Congressi così ce ne sono stati, eccome, nella Prima Repubblica: socialisti in primo luogo, certo, ma pure democristiani e comunisti, liberali e missini. Ma sono vent’anni e passa che non ci capita di assistere a qualcosa di anche lontanamente paragonabile. I congressi o non si fanno affatto o si fanno per ratificare la vittoria di un leader o, dove la leadership non è contendibile, sono solo delle convention. I perché sono tanti. E magari qualcosa conta anche il fatto che i partiti storici non ci sono più, e quelli nuovi non sono mai nati: che valore può annettere a un congresso «vero» un partito che «vero» non è? Il Pd aveva pensato di aggirare il problema con le primarie: più potere ai cittadini elettori, e in certi casi neanche elettori, meno, quasi niente, agli iscritti. Ma non è certo con le primarie, comunque le si giudichino, che si può stabilire se esistono ancora i motivi di fondo dello stare insieme di una comunità politica e, prima ancora se questa comunità sia mai esistita davvero. E dunque si torna alla domanda di partenza: chi decide? A parte, si capisce, i diretti interessati. La speranza che il Pd si risolva ad affrontare le proprie divisioni con la chiarezza invocata da Cazzullo resta. Ma resta anche il (fondato, fondatissimo) timore che, nel crescente fastidio di un Paese in tutt’altre faccende affaccendato, tra una minaccia e l’altra di Vietnam parlamentare tutto continui ad andare avanti grosso modo così. Per Renzi sarebbe un mediocre affare. Per la sinistra del Pd, un disastro.