venerdì 21 agosto 2015

Corriere 4.8.15
Il mito è la sorgente dell’umanità
Torna per Il Saggiatore di Károly Kerényi Gli dèi e gli eroi della Grecia
L’Oceano e il Caos, Prometeo e Persefone Narrazioni che evocano gli enigmi della vita
di Giorgio Montefoschi


Il libro di Károly Kerényi Gli dèi e gli eroi della Grecia. Il racconto del mito, la nascita della civiltà (pagine 628, e 24) uscì nell’edizione originale in due volumi tra il 1951 e il 1958 Kerényi (1897-1973) è considerato uno dei più importanti filologi del Novecento

Il mito — scrive Károly Kerényi nella prefazione a Gli dèi e gli eroi della Grecia , un classico del pensiero occidentale che ora ripropone Il Saggiatore — non è altro che l’infanzia dell’umanità. Lo sforzo che fa la psicologia del profondo per risalire all’infanzia del singolo non differisce da quello che si compie per risalire ai primordi dell’animo umano: a quella remota sorgente dei tempi nella quale il mito ha il suo luogo, fonda le leggi fondamentali della vita, e prende forma nelle sue immagini stupefacenti. Queste immagini non si sono smarrite. Perdurano nella purezza del mare e del paesaggio greco, nei suoi profumi, e nel vento; nelle certezze o nelle oscurità dei nostri pensieri; nel nostro sentire; negli enigmi dei nostri sogni.
Il racconto più antico sulla nascita del mondo è quello di Omero: secondo il quale Oceano è all’origine di tutto. Oceano è una corrente che rifluisce eternamente su se stessa agli estremi margini della terra, delimitando il confine con l’aldilà. La sua inesauribile potenza generatrice era simile a quella dei fiumi nei quali le fanciulle greche scendevano a bagnarsi prima delle nozze. Gli Orfici, invece, raccontavano che l’origine era nella Notte: un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose un uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità. Dall’uovo balzò un dio dalle ali d’oro, chiamato Eros, il dio dell’amore. Anche Esiodo — il poeta-pastore che pascolava le pecore sulle falde dell’Elicona — parlava di un uovo: più esattamente, del vuoto che si spalanca in un uovo quando gli si toglie il guscio. Quello «spalancarsi» era il Caos primordiale. Dal Caos erano nati Gea, la terra, e Urano, il cielo stellato, Crono e Rea, Zeus e tutti gli dèi, la luce e il buio privo della luce, la stirpe dell’uomo.
Gli dèi e gli uomini — dice sempre Esiodo — avevano la stessa origine; ma gli dèi erano immortali e beati, gli uomini soggiacevano alla sofferenza e alla morte. Alcuni sostenevano che, come frassini, fossero spuntati direttamente dalla terra; altri narravano che, quando fu il momento, gli dèi formarono gli uomini, con vari elementi, sotto terra e poi, per portarli alla luce, ordinarono a due fratelli della stirpe dei Titani, Prometeo e Epimeteo, di distribuire loro tutto quello che era necessario alla vita; qualcuno raccontava che il vero «facitore» degli uomini, con acqua e fango, era stato proprio Prometeo. A sostegno di quest’ultima verità, nella regione della Focide si mostravano ancora ingenti blocchi di pietra che avevano l’odore del corpo umano: essi sarebbero stati i resti del fango con il quale il Titano aveva creato l’uomo.
Ma l’uomo — benché di origine divina — era nudo, indifeso, solo. E, soprattutto, prigioniero della morte. Prometeo ne ebbe pena. E, come Cristo, volle liberarlo dalla morte dandogli il dono della speranza e quello del fuoco. Egli giunse di nascosto al focolare del palazzo olimpico in cui abitavano gli dèi; prese una scintilla e la nascose nello stelo cavo di un arbusto (la stessa specie di pianta che nel corteo dionisiaco serviva per il tirso: la lunga verga che agitavano i baccanti e le baccanti); quindi, ebbro di gioia, agitando lo stelo affinché la fiamma non si spegnesse, corse verso gli esseri umani.
Zeus ebbe una fitta nel cuore e si riempì d’ira quando, da lontano, vide brillare il fuoco, ed escogitò due punizioni: una per il ladro, l’altra per l’umanità. Prometeo — in una prefigurazione della crocifissione — fu inchiodato con un grosso palo che gli attraversava il corpo, sulla cima del Caucaso. Durante il giorno, un’aquila si pasceva del suo fegato; durante la notte, il fegato ricresceva perché potesse mantenersi in vita per almeno trentamila anni. Nel Prometeo incatenato , dopo i cori sublimi delle ninfe Oceanine che esprimono la pietà del mondo, Eschilo mette in bocca all’eroe caritatevole legato alla roccia parole altrettanto sublimi di indomabile fierezza. Prima del mio dono — egli dice — gli uomini avevano occhi e non vedevano, avevano orecchi e non sentivano, somigliavano a immagini di sogno… Io spensi all’uomo la vista della morte. Seminai la speranza. Poi li feci partecipi del fuoco… Ho voluto il mio peccato e non lo smentirò.
Per il genere umano — che fino a quel momento era costituito di soli maschi — la punizione fu la creazione della donna. Zeus ordinò a Efesto di creare una fanciulla meravigliosa e pudica. Le Ore la inghirlandarono di fiori primaverili. Atena le insegnò a tessere. Afrodite la istruì in tutto ciò che doveva sapere riguardo alla seduzione. Ermes le pose nel petto la menzogna, le lusinghe e l’inganno. Quando gli dèi la videro rimasero stupefatti e subito capirono quale insidia veniva inviata all’uomo. Poi Pandora — questo era il suo nome — scese sulla terra. E, come prima cosa, soggiacendo alla curiosità che è tipicamente femminile, sollevò il coperchio di uno di quei grandi vasi nei quali venivano conservati l’olio o il frumento. Ne uscirono le fatiche, le malattie, la morte.
Il regno dei morti era dominato da Ades, il terzo fratello,con Posidone, di Zeus. Il termine ades significa «l’invisibile», o anche «colui che rende invisibile». Nell’inno omerico, stupendo, intitolato A Demetra si racconta che Ades, per volontà di Zeus, rapì Persefone, la figlia di Demetra, la madre terra, e la condusse agli Inferi per farne la sua sposa. Persefone giocava nei prati con le Ninfe e raccoglieva i fiori. Attratta da un narciso di incomparabile bellezza, lo strappò provocando una voragine, dalla quale emerse Ades con il suo carro e i suoi cavalli. Finché, nella sua corsa al precipizio, Persefone riuscì a contemplare il cielo stellato. Ebbe speranza. Poi tutto si oscurò e lei esplose in un urlo d’angoscia che riempì l’universo. Sua madre lo sentì e per nove giorni, reggendo due fiaccole nelle mani, la cercò ovunque. Era sparita. Così, nel sembiante di una vecchia lacera, con un velo sul volto, approdò a Eleusi. Fu accolta nella reggia e divenne nutrice del figlio del re Celeo e della regina Metanira. Di notte, nascostamente, temprava il bambino nel fuoco. Scoperta e scacciata, rivelò la sua origine divina e, colma d’ira, impose che lì, a Eleusi, venisse costruito un tempio in suo onore, nel quale avrebbe insegnato i sacri riti della fertilità e della immortalità: i misteri che solo gli iniziati avrebbero potuto conoscere e nessun altro avrebbero dovuto rivelare. Ma ora, per volere di Demetra, la terra soffriva una terribile carestia. Così Zeus inviò Ermes da Ades per persuaderlo a far tornare Persefone alla luce del sole. Seguendo le stagioni — la nascita e il rigoglio della natura, e il suo sonno — avrebbe trascorso due terzi dell’anno sulla terra, un terzo negli Inferi.
Come nell’animo umano, la paura della morte e la speranza della rinascita, il dolore e la redenzione, la violenza e la pacificazione, l’odio e l’amore, così come l’eterno contrasto della luce con l’oscurità, attraversano ogni episodio della mitologia greca. La riapparizione di Dioniso, il più giovane figlio immortale di Zeus, la sua epifania quale Dio apportatore di felicità — dopo il periodo cruento e oscuro della caccia e del sacrificio, del furore bestiale in cui cadeva chi non voleva riconoscerlo — è oggetto di racconti che si intrecciano. In forma umana, veniva rappresentato con una maschera. Ma, anche quando non appariva con una maschera, aveva uno strano volto che emanava un particolare fascino. In mano aveva un vaso contenente il vino. Molte erano le sue riapparizioni sul mare: sfondo struggente di quasi ogni mito. Un antico dipinto vascolare lo mostra solo, barbuto, sdraiato su una barca; l’albero e la vela sono coperti di tralci dai quali pendono grappoli giganteschi d’uva; attorno alla barca giocano i delfini.
Non sappiamo se questo viaggio gioioso nei flutti azzurri carezzati dal vento sia quello che fece verso Creta per ricordare ad Arianna che lei era la sua promessa sposa e dunque non poteva convolare a nozze con Teseo, pur avendolo salvato dal Labirinto; oppure sia quello che fece alla volta dell’isoletta di Dia, di fronte a Nasso, nella quale Teseo l’aveva abbandonata proprio per non offendere il dio. Le nozze legittime, quindi, si svolsero a Dia (dove tuttora è visibile la grande porta del tempio che per secoli le celebrò). Poi, insieme alla corona d’oro che le aveva donato, il terzo figlio di Zeus condusse Arianna in cielo tra le costellazioni.
Teseo, intanto, abbandonata Arianna, faceva vela verso Atene. In un bel libro intitolato Il mito di Arianna (Einaudi), Silvia Romani, dopo la narrazione di Maurizio Bettini, racconta, con Plutarco, che Teseo fece una sosta a Delo. Lì, l’eroe ateniese e i compagni di viaggio intrecciarono una danza di gioia e di liberazione che — al dire di Plutarco — pareva si ballasse ancora ai suoi tempi. Alcuni, in seguito, la chiamarono geranos , la danza delle gru: uccelli fra i più aristocratici e snelli. I danzatori dovevano disporsi in uno o due cerchi, tenersi per i polsi o porre le mani sulle spalle del vicino o della vicina, e girare intorno, restringersi e allargarsi, raffigurando — in questo ballo mentale — le «circonvoluzioni verso l’interno e l’esterno del labirinto». Vale a dire: gli ondeggiamenti della speranza e della paura. Ma anche dell’irrazionale sentimento amoroso che — sempre — ruota attorno al centro, va verso il centro, e se ne allontana.
Non è inusuale, affatto, oggi, nelle isole dell’Egeo o del Dodecaneso, come nei villaggi del Peloponneso — in estate sotto gli alberi, d’inverno nelle taverne — veder sorgere questi circoli di danzatori ebbri e perfetti. Talvolta sono in cospi cuo numero. Talvolta, anche solo due. Come, in Zorba il greco, il film di Cacoyannis, Anthony Quinn (il greco dionisiaco) e Alan Bates (il timido scrittore inglese) sulla spiaggia bianca di Creta.