giovedì 27 agosto 2015

Corriere 27.8.15
Il sociologo tedesco sul “Mulino”
Verso la disintegrazione europea Nord e Sud remano all’opposto
di Wolfgang Streek


La Germania post bellica non desiderò mai di guidare l’Europa. I leader tedeschi, di qualsiasi partito, convennero che la Germania avesse un problema di fondo: era troppo grande per essere amata e troppo piccola per essere temuta. Quindi, l’interesse nazionale tedesco doveva consistere nel divenire parte di un’entità europea più ampia, non guidata dalla sola Germania bensì in cooperazione, in particolare con la Francia. Sotto Kohl in particolare, l’integrità del guscio europeo dentro il quale la Germania sperava di trovare una comoda casa divenne talmente importante che Kohl stesso, qualora si verificassero attriti con i partner europei, era sempre più che pronto a fornire i mezzi materiali — cioè, a pagare il conto — per un compromesso che lasciasse intatta l’unità europea.
Ma oggi non è più possibile. Dall’inizio della crisi, tutti in Europa e altrove guardano alla Germania per una soluzione. Ma oggi i problemi sono diventati troppo grandi perché la Germania li possa risolvere di tasca propria. Quello che c’è di nuovo con Merkel, rispetto a Kohl, non è che lei sia desiderosa di diventare il Führer d’Europa. Ma il momento è tale che il capo del governo tedesco deve uscire dall’ombra del retroscena europeo, se non altro perché altrimenti la scena rimarrebbe vuota. Qui i problemi che Merkel si trova di fronte sono enormi: sia in Europa dove l’integrazione si è rivelata un disastro e la Germania appare grande abbastanza da prendersi la colpa di tutto ciò che non va ma ancora troppo piccola per porci rimedio; sia all’interno, dove il consenso centrista della politica tedesca è prossimo al collasso. (…)
È un’ironia della storia il fatto che l’unione monetaria, pensata per cementare l’unità europea, stia ora per ridurre a pezzi l’Europa. L’Ue unisce società nazionali molto differenti, con istituzioni, pratiche e culture economiche altamente divergenti che riflettono differenti contratti sociali. In sintesi, i Paesi del Mediterraneo hanno sviluppato un tipo di capitalismo nel quale la crescita è anzitutto guidata dalla domanda interna, se necessario stimolata da un’inflazione alimentata dal deficit pubblico e con forti sindacati che beneficiano di un’alta sicurezza occupazionale. L’inflazione, a sua volta, rende più facile per lo Stato ottenere prestiti, dato che svaluta il debito accumulato. Tutto questo rende possibile conciliare più o meno bene gli interessi di operai e imprenditori, in particolare nella piccola industria per il mercato interno. Il prezzo di questo tipo di pace sociale è la perdita di competitività internazionale, che deve essere compensata da periodiche svalutazioni della moneta nazionale. Naturalmente questo richiede la sovranità monetaria.
Le economie nordeuropee, soprattutto la Germania, funzionano in maniera diversa. Esse traggono la loro crescita dalla competizione vincente sui mercati esteri, cosa che le rende avverse all’inflazione. Questo vale anche per i lavoratori e i sindacati, in particolare oggi, perché costi interni crescenti possono facilmente indurre alla delocalizzazione produttiva. Per un’economia di questo tipo non è importante essere in grado di svalutare la moneta nazionale. Mentre i Paesi mediterranei, e in una certa misura anche la Francia, si trovavano meglio in passato con una valuta debole, Paesi come la Germania storicamente hanno preferito una politica monetaria che mantenesse forte la valuta nazionale. (…)
Un regime monetario unificato per economie (nordeuropee) «risparmia e investi», da un lato, ed economie (sudeuropee) «prendi a prestito e spendi», dall’altro, non può servire bene entrambe. Se si vuole una valuta comune, una delle due economie deve «riformare» il suo sistema di produzione, e il patto di pace sociale su di esso basato, sul modello dell’altra. Allo stato attuale, i Trattati fanno ricadere l’onere sui Paesi mediterranei, obbligandoli a «cambiare» per diventare «competitivi», con la Germania come regista di inflessibilità monetaria. Come si può vedere, questo non è quello che i loro governi possono o vogliono fare. Il risultato è una battaglia fra due linee che sta diventando odiosa, perché non si riflette solo sui livelli di vita delle persone, ma anche sulle loro abitudini consolidate. I tentativi dei Paesi meridionali di avere un euro «leggero», in modo da poter tornare ai tassi di inflazione, ai debiti pubblici e alle svalutazioni periodiche, incontrano la resistenza dei governi e degli elettorati nordeuropei, i quali rifiutano di essere trasformati in creditori d’ultima istanza dei loro vicini meridionali e di pagare per le iniezioni di liquidità senza le quali l’economia di questi ultimi non può riprendersi. (…)
Le differenze economiche fra gli Stati dell’Unione monetaria genereranno conflitti laceranti. I Paesi meridionali chiederanno «programmi di crescita», un «piano Marshall» europeo, una politica di sostegno regionale che li aiuti a costruire un’infrastruttura competitiva, e «solidarietà» concreta in cambio della loro adesione al «mercato unico». I Paesi settentrionali non saranno in grado, per ragioni economiche e politiche, di fornire che una piccola parte di quanto loro chiesto. E comunque esigeranno il controllo su come verrà speso il loro denaro, se non altro per evitare di ricevere accuse di spreco, clientelismo e corruzione dalle opposizioni interne. I Paesi meridionali, a questo punto, opporranno resistenza all’intrusione settentrionale nella loro sovranità, continuando a lamentarsi della taccagneria e dell’invadenza del Nord, mentre i Paesi settentrionali continueranno a pensare di pagare fin troppo e di controllare troppo poco. La Germania, in particolare, sarà percepita come politicamente imperialista ed economicamente egoista, senza poterci fare granché. (…)
I dubbi sulla sostenibilità del regime monetario unico-valido-per-tutti stanno cominciando a crescere, anche in Germania. Oggi l’Unione monetaria europea è tenuta insieme quasi interamente dalla paura e dall’incertezza di quello che potrebbe succedere se essa andasse in pezzi. Ben presto ciò potrebbe non essere più sufficiente per giustificare agli elettori tedeschi i contributi loro richiesti per mantenere in vita l’Unione. A fronte dell’insorgere di un nazionalismo populista, le élite politiche tedesche potrebbero trovare consigliabile abbandonare la loro identificazione ideologica dell’euro con l’«Europa» e dare ascolto al crescente numero di economisti che, anche in Germania, stanno cominciando a pensare a un regime monetario europeo alternativo, più flessibile, meno unitario.