venerdì 21 agosto 2015

Corriere 19.8.15
Una discarica illegale
Le carceri italiane violano la Costituzione: non recuperano il detenuto, lo diseducano E la politica rincorre gli umori giustizialisti
di Michele Ainis


Abolire il carcere? Più che una domanda, parrebbe una bestemmia. Oppure un delirio, il vaneggiamento utopico di chi progetti un mondo senza delitti e senza guerre. Ma in un volumetto appena pubblicato da Chiarelettere questa domanda si converte in un imperativo, in un’indicazione perentoria. Anzi: gli autori (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta) vi si riferiscono come a una proposta «ragionevole», in grado di rendere più sicura la vita dei cittadini, non meno sicura.
Non sono i primi a immaginare l’impossibile. La medesima proposta fu anche di Giulio Salierno, intellettuale oggi un po’ dimenticato, ma di cui certamente si ricordano quanti vissero i nostri ruggenti anni Settanta. Salierno scrisse il primo libro-documento sulla condizione carceraria ( Il carcere in Italia , con Aldo Ricci, 1971), pubblicato da Einaudi nella collana diretta da Elio Vittorini: il «Nuovo Politecnico», con quel francobollo rosso che la rendeva inconfondibile. Un saggio e insieme una testimonianza, uno spaccato di vita vissuta. Per raccontare il carcere, possiamo innanzitutto raccontare quella vita.
Salierno era nato a Roma nel 1935, da una famiglia di militari e di burocrati. Crescendo a Colle Oppio, che a quel tempo costituiva un’enclave fascista, gli venne naturale diventare fascista a propria volta. Sicché nel 1952 è segretario della sezione giovanile del Msi; si trova coinvolto in pestaggi, scontri di piazza, piccoli attentati contro le sedi del Partito comunista; frequenta Evola, ammira Borghese, Almirante, Graziani. A 18 anni progetta l’azione esemplare: uccidere Walter Audisio, alias colonnello Valerio, che si era assunto la responsabilità dell’esecuzione di Benito Mussolini. Insieme a un altro, una notte cerca di rubare un’automobile, per servirsene poi nella sua impresa. C’è a bordo una coppia di fidanzatini; lui reagisce; Salierno (o forse l’altro) spara. Un omicidio assurdo, come quelli descritti da Camus.
A quel punto fugge a Lione, per arruolarsi nella Legione straniera, garanzia d’impunità. Però a Sidi-Bel-Abbès viene catturato dall’Interpol, ed è il primo arresto effettuato nella Legione dopo 153 anni. Perciò Salierno sperimenta le celle algerine: due metri per un metro, con un’altezza d’un metro e 60, sicché non puoi starci in piedi; e là fuori il deserto, la sabbia arroventata. Fra gli altri prigionieri, le prime cellule del Fronte di liberazione nazionale, che in capo a pochi anni restituirà l’indipendenza all’Algeria. Lui solidarizza con quei giovani arabi, ne comprende le ragioni. Un moto umano, prima che politico; lo stesso sentimento che poi riversa sui detenuti delle carceri italiane, dopo la condanna a 30 anni per omicidio a scopo di rapina.
Si consuma così la sua conversione. Mentre girovaga per 22 penitenziari, Salierno legge di tutto, prende un diploma da geometra, è il primo detenuto a iscriversi all’università; e diventa comunista. In prigione, a Perugia, scrive un libro ( La spirale della violenza ); studia i regolamenti carcerari, pretendendone il rispetto; s’erge a paladino dei diritti dei detenuti. Nel 1968, dopo 13 anni di galera, viene graziato da Saragat per i suoi meriti di studioso. E allora il Pci lo esibisce come una Madonna pellegrina, mentre lui — attraverso la casa editrice Einaudi — entra in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca, promuove con Basaglia la chiusura dei manicomi, con Terracini la riforma penitenziaria. Rivestirà anche incarichi accademici nelle università di Trento, Roma, Firenze, Sassari, Teramo; e scriverà altri libri, fino alla morte nel 2006.
Che cosa ci racconta questa storia? Che il carcere può ben essere strumento di riscatto; come del resto vuole l’articolo 27 della nostra Carta, secondo cui «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Sennonché Salierno è stato un’eccezione, ha avuto in sorte un’esistenza eccezionale. Nella normalità dei casi le galere funzionano piuttosto come una discarica, come la Nave dei folli ( Narrenschiff ) immaginata da Foucault, con il suo equipaggio galleggiante lungo i fiumi della Renania, senza mai il permesso di sbarcare in città. Perché in carcere ci vanno i reietti — gli immigrati, i tossicomani, i poveri, tutto il caleidoscopio della marginalità sociale. E loro, quando escono dal carcere, poi ci ritornano: in Italia l’indice di recidiva è al 70%, quando in Svezia rasenta la metà, mediante il ricorso alle pene non detentive e al lavoro esterno.
Da qui un fallimento nazionale: spendiamo all’incirca tre miliardi l’anno, più degli altri popoli europei; ne otteniamo in cambio i peggiori risultati. Da qui, inoltre, un’illegalità costituzionale. Perché di fatto la pena detentiva è una vendetta, né più né meno. E d’altronde, se fosse viceversa uno strumento di recupero, come potremmo mai giustificare la pena dell’ergastolo? Eppure la Consulta l’ha giustificata (sentenze del 1974, 1983, 1994), dato che l’ergastolano può ottenere pur sempre la grazia o la liberazione condizionale. Curioso argomento: ragionando così, dovremmo ammettere la pena di morte, poiché il Quirinale può graziarti all’ultimo minuto. O dovremmo difendere l’indissolubilità del matrimonio, senza mai concedere divorzi; tanto, ciascun coniuge ha la possibilità di rimanere vedovo.
Ma la nostra Carta qui entra in gioco pure sotto un altro profilo: l’eguaglianza. Vero, le pene hanno una durata diseguale, a seconda della gravità dei reati. Ma vengono scontate in condizioni eguali, nello stesso penitenziario, nella stessa cella dove il ladro di polli dorme di fianco all’omicida. La promiscuità delle carceri è la prima causa del loro degrado. Trasforma il piccolo delinquente in un criminale incallito, come una scuola a rovescio: diseducazione, anziché rieducazione. Stimola gesti d’autolesionismo (o anche i suicidi: 44 nel 2014) dentro il carcere, le recidive fuori. E in conclusione genera l’ossimoro, la torsione logica dei principi costituzionali: la massima eguaglianza, la massima ingiustizia.
C’è infine un’ultima ferita ai valori della Carta, la più profonda. Non perché la Costituzione italiana ripudi le galere come ripudia le guerre; anche se l’unico riferimento vi s’incontra nell’articolo 13, ed è un argine all’abuso della carcerazione preventiva. Tuttavia fra quelle norme riecheggia una lezione illuminista, anzi una doppia lezione. Primo: diritto penale minimo. Secondo: carcere come extrema ratio . Che cosa ci è accaduto invece? Che abbiamo in circolo 35 mila fattispecie di reato, sicché rischiamo d’infrangere la legge senza nemmeno sospettarlo. E che in Italia va in galera l’82% dei condannati; in Inghilterra e in Francia il 24%.
La domanda è: perché? Risposta: per la pressione dell’opinione pubblica e per la debolezza della politica. Infatti dopo Tangentopoli è montata un’onda giustizialista, che i nostri politici non hanno saputo governare. Da qui la riforma che nel 1992 ha reso impraticabile l’amnistia (servono i due terzi in Parlamento, quando la Costituzione si cambia a maggioranza assoluta). Da qui l’inasprimento delle pene e l’affastellamento dei reati (new entry : l’omicidio stradale). Da qui il sovraffollamento delle carceri (ancora al 118%). Ma la politica sbaglia a inseguire gli umori viscerali dell’elettorato: se vuole edificare un Paese più civile, prima o poi dovrà addossarsi il peso di decisioni impopolari. Se non per abolire il carcere, per abolirne gli abusi.