venerdì 21 agosto 2015

Corriere 13.8.15
Demagogia e profezia si confrontano nel vuoto della politica
Strategie mancanti. Se si ripercorrono gli ultimi tre decenni di storia italiana, è facile scoprire che sul tema dell’immigrazione, ogni giorno più complesso, ciò che è emerso è stato solo uno sterile balbettio
di Umberto Curi


Nei commenti che hanno accompagnato la durissima polemica fra alcuni settori della Chiesa e la Lega Nord è rimasto finora del tutto in ombra un aspetto, che è invece della massima importanza. Non solo per inquadrare correttamente la rovente questione dell’immigrazione, ma anche per comprendere la fase politica in atto nel nostro Paese. Per dirla in estrema sintesi: il fatto che su un tema così delicato e pervasivo si confrontino da un lato la Conferenza episcopale italiana e dall’altro Matteo Salvini dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, un fatto che da più parti, e per ragioni diverse, si vorrebbe occultare, e cioè l’eclissi della politica. Non è politica, infatti, ma squisitamente morale, la posizione assunta dalla Chiesa, incrollabile nel propugnare l’irrinunciabilità di alcuni valori, ai quali tutti dovrebbero sentirsi obbligati. Ma non è politica neppure la propaganda abilmente orchestrata dal Carroccio, visto che da nessuna parte si è mai avuta una risposta minimamente coerente e dettagliata alla domanda relativa a ciò che la Lega farebbe, ove fosse investita della responsabilità di governare. Al richiamo morale dei vescovi, Salvini fa corrispondere semplicemente il repertorio più tradizionale dell’antipolitica. Fra queste due posizioni contrapposte, fra morale e demagogia, entrambe evidentemente inadeguate ad affrontare un problema di tali dimensioni e di tale qualità, ciò che manca è precisamente la politica. Si badi bene: non la politichetta degli interventi frammentari e spesso casuali, né la politica come pura risposta emergenziale, guidata dall’emozione piuttosto che dalla ragione. Ma quella che una volta si sarebbe definita «grande politica» — l’unica in grado di affrontare il più impegnativo problema col quale l’Occidente nel suo insieme dovrà misurarsi nel corso dei prossimi decenni. Certamente non si può dire che l’Europa stia offrendo una buona prova della capacità di governare fenomeni rilevanti, come quelli connessi con i flussi dei migranti e dei profughi. Ma almeno, qua e là, si possono intravedere alcuni sforzi per la costruzione di qualcosa che assomigli a una strategia politica complessiva. Mentre è davvero deprimente dover constatare quanto sia miserabile il livello complessivo dell’elaborazione politico-culturale nel nostro Paese, alle prese con una questione che richiederebbe, invece, la messa in campo delle risorse migliori. Se si ripercorrono gli ultimi tre decenni di storia politica italiana, è facile scoprire che sul tema, prevedibilmente ogni giorno più complesso, delle implicazioni connesse con la mobilità di imponenti masse di migranti, ciò che emerso è stato solo uno sterile balbettio. A contendersi il terreno non sono state prospettive politiche diverse e concorrenti, chiamate alla verifica della loro efficacia sul piano concreto della capacità di fronteggiare il problema, ma semplicemente due parole d’ordine, avvilenti nella loro povertà concettuale, prima ancora che ineffettuali dal punto di vista pratico: respingimenti o accoglienza. Senza che né l’uno né l’altro slogan siano mai stati accompagnati dall’indicazione di ciò che andrebbe fatto per riempire di contenuti determinati questi veri e propri flatus vocis. Senza che nessuno si sia preso la briga di dimostrare con quali modalità si potevano rendere reciprocamente compatibili i legittimi interessi della popolazione autoctona con i doveri connessi con l’adozione di provvedimenti umanitari. Sballottati fra le lusinghe individualistiche di Salvini e la parola profetica di papa Francesco, fra il pieno compimento dell’antipolitica (non a caso, recentemente condiviso anche da Grillo), e la nobiltà inevitabilmente «inattuale» del discorso del Pontefice, rischiamo seriamente di essere inghiottiti nel vuoto lasciato dalla bancarotta della politica.