Repubblica 16.7.15
Che cosa ci insegna l’imbecillità di massa
Elogio semiserio dei nostri difetti ai tempi della società digitale e della fine dei sogni collettivi
di Maurizio Ferraris
Per più di un motivo, quello della imbecillità di massa si presenta come un vasto problema. Anzitutto perché si presta più di ogni altro tema alla ritorsione del tu quoque trascendentale: chi sei tu, quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini? Quale patente di intelligenza ti autorizza a sollevarti al di sopra del mondo? Se c’è un momento in cui una persona intelligente appare irrimediabilmente stupida è quando pretende di sollevarsi sulla massa, per esempio quando Heidegger sostiene che «chi pensa in grande può anche
errare in grande», o quando Valéry apre M. Teste con un madornale «La stupidità non è il mio forte». Da questo punto di vista, l’imbecillità di élite (quella che per esempio si manifesta nei “centri di eccellenza” che sono fioriti in una università devastata qualche anno fa) sembra ancora più acuta dell’imbecillità di massa. Quest’ultima, però, ha dalla sua il peso della quantità, e, come diceva Hegel (altro filosofo in cui si può trovare una quantità di affermazioni stupide), il quantitativo trapassa necessariamente nel qualitativo.
Per verificarlo, basterà leggere Nello sciame. Visioni del digitale del filosofo coreano naturalizzato tedesco Byung-Chul Han appena tradotto da Nottetempo. Una filippica contro il digitale basata sulla contrapposizione (in sé non meno inconsistente di «la stupidità non è il mio forte») tra l’informazione «cumulativa e additiva» e la verità «esclusiva e selettiva».
Al digitale vengono imputati tutti i mali del mondo: egoismo, liberismo, nichilismo, coazione, oscenità, calo del desiderio, ma anche cose un po’ speciali come il fatto che (i corsivi sono dell’autore), diversamente dall’ Iliade , «l’indignazione digitale non è cantabile », o che oggi viviamo «in un tempo di morti viventi , nel quale non solo l’esser-nati ma anche il morire sono divenuti impossibili ». Anche il gomito del tennista dipende dal digitale? No. Tuttavia Byung-Chul Han ci va vicino quando parla di «artrosi digitale delle dita» (che sarebbe risultata fatale a Heidegger dal momento che, scrive altrove Byung-Chul Han, «la mano di Heidegger pensa invece che agire»). Malgrado questa menomazione, nel digitale «Dispongo dell’Altro come se lo tenessi tra il pollice e l’indice ». Anche in questo caso, i corsivi sono dell’autore, che segnala una circostanza anatomicamente implausibile anche senza artrosi digitale (provate a tenere anche solo un telefonino tra il pollice e l’indice: con cosa scrivete? Con il naso?) e antropologicamente problematica (per quello che riguarda la mia personale esperienza, ho piuttosto l’impressione che sia l’Altro a disporre di me).
Immagino il tu quoque trascendentale, e mi ci rassegno. Ognuno di noi è un portatore, più o meno sano, di imbecillità. Joseph de Maistre ha potuto scrivere un libro monumentale e magnifico, l’ Esame della filosofia di Bacone, in cui enumerava i segni evidenti di imbecillità ravvisabili negli scritti del Lord Cancelliere, il padre della scienza moderna, un cui brano è posto in esergo della Critica della ragion pura . A un certo punto, dopo aver osservato che nella sua Storia di Enrico VII , Bacone scrive che il re assiste alla celebrazione delle feste di Natale il 27 dicembre, de Maistre svolge una considerazione capitale: «Ci sono mille prove che spesso scriveva per pura abitudine meccanica e per esercitare le dita ».
Ecco la vera origine della imbecillità collettiva. Noi non siamo affatto più imbecilli dei nostri antenati, anzi, è altamente probabile che siamo molto più intelligenti di loro. Meno mangioni (avete fatto caso a quanto si mangia nei romanzi dell’Ottocento?), meno beoni (provate a contare il numero di birre che si beve Maigret in una giornata di lavoro), più liberali e meno autoritari o inclini al fanatismo (i roghi delle streghe non sono più prassi corrente), mediamente più istruiti e alfabetizzati. E proprio qui è il problema.
Oggi l’imbecillità è, per così dire, molto più documentata e diffusa, perché quello che un tempo era la prerogativa di Bacone, scrivere per esercitare le dita, è diventata la più diffusa delle consuetudini. Non ci sono vite che passano senza lasciar tracce. E fra le tracce non ci sono fondi di cassetto, appunti, scartafacci. Tutto è pubblicato, letteralmente, alla velocità della luce. A questo punto, apparirà ovvio che l’imbecillità, che costituisce il basso continuo dell’umano proprio come l’intelligenza ne è la punta emersa e sporadica, venga alla ribalta con una evidenza mai sperimentata in precedenza.
Del 10 giugno 1940 ci rimane il testo, espressione di imbecillità di élite, di Mussolini, che si spinge sino a precisare che dichiara guerra a Francia e Inghilterra ma non alla Svizzera o alla Turchia, e l’immagine dell’imbecillità di massa della folla plaudente ed esaltata. Oggi avremmo milioni di post e di tweet, variazioni del discorso dell’imbecille di élite, magari aggravate dal fatto che, per quanto imbecille, Mussolini lo era molto meno di tanti altri accorsi in Piazza Venezia.
Questa circostanza, per assurdo che possa sembrare, ha un versante positivo, su cui vorrei portare conclusivamente l’attenzione. L’imbecillità iper-documentata rende radicalmente impossibile farsi illusioni sul genere umano, e concretamente su ognuno di noi. Illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, appunto perché muovevano dall’assunto che l’umanità fosse meglio di quella che è.
Per aiutare l’umanità, per migliorare ognuno di noi, bisogna partire dall’assunto inverso, quello della prevalenza di Genny ‘a carogna. E ciò che un tempo era riservato a pochi, che si chiudevano in stanza la notte a leggere Tito Livio per conoscere le debolezze umane, oggi è disponibile, direbbe Byung-Chul Han, «tra il pollice e l’indice», e insegna da solo più di Montaigne e di Spinoza. Ed è per questo che, venuto meno il sogno della intelligenza collettiva con cui si era salutato l’avvento del digitale, conviene giocarsi la carta della imbecillità di massa come fonte di insegnamento e di ammonimento.